Giacomo Matteotti |
Giacomo Matteotti
deputato socialista e
massimo oppositore al Regime fascista
EROE VENETO
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Giacomo
Matteotti nacque a Fratta Polesine, in provincia di Rovigo, il 22
maggio 1885. La famiglia era originaria di Comasine, nella valle
di Pejo, nel Trentino. Il nonno Matteo, di mestiere calderaio,
commerciava di frequente in pianura e finì per stabilirvisi con
la moglie Caterina. Nel 1839 nasceva Gerolamo, il padre di
Giacomo. La madre, invece, si chiamava Elisabetta Garzolo (detta
Isabella). La coppia aveva aperto nel rovigotto un piccolo
emporio (di tessuti, attrezzi agricoli, ferramenta, articoli
casalinghi), che grazie ad una gestione avveduta permette alla famiglia
di investire in terreni e fabbricati.
I fondi agricoli acquistati si rivelano redditizi, sicché la
famiglia ha i mezzi per far studiare Giacomo e i suoi fratelli; nel
1907 si laurea in Giurisprudenza all’Università di Bologna
con una tesi sulla recidiva nel diritto penale, che pubblica nel 1910.
UN UOMO CHE RACCHIUDEVA IN SÉ LE PIU'ALTE VIRTÚ
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DI SINISTRA, MA
NON ANTICLERICALE.
Giacomo ed il fratello Matteo, in tempi di forti tensioni tra
socialisti e cattolici, erano impegnati nel dialogo tra le forze
popolari, nella convinzione che il riscatto delle classi lavoratrici
dovesse avvenire nel rispetto dei riferimenti culturali della gente
semplice.
DAVANTI AD UNO STATO AMORALE E AD UNA SOCIETÁ OPPRESSA. Nei
primi del Novecento la situazione delle comunità rurali è
segnata da una miseria catastrofica. Il Regno d’Italia tassa in
modo selvaggio i beni di prima necessità, mentre i socialisti si
battono per l’abolizione della tassa sul grano e per
l’introduzione di quella patrimoniale. Lo Stato dilapida il
pubblico erario: del miliardo e 671 milioni di lire del bilancio annuale, un terzo se ne va in spese per armamenti e circa 700 milioni sono persi per pagare il debito pubblico; ai servizi per i cittadini sono riservati appena 400 milioni
(circa il 20%). L’impegno politico di Giacomo inizia a sedici
anni; nel 1904 è responsabile per il Comitato centrale del
collegio di Lendinara, nel 1910 è eletto a furor di popolo al
Consiglio Provinciale di Rovigo.
CONTRO L'IMPERIALISMO DELIRANTE. “Né un uomo né un
soldo per l’Africa”, così egli conduce
l’opposizione alla guerra di Libia (1911-12), appoggiando anche
l’espulsione dei “socialpatriotti”, gli interventisti
interni al partito. Instancabile è la sua presenza nei
comizi e sulle pagine dei giornali per contrastare la retorica di Stato
e denunciare la realtà della guerra coloniale. All’alba
della guerra mondiale 1915-18, Matteotti presagisce
l’incapacità dell’Italia a mantenere una politica
neutrale, lottando con tutte le sue forze per far schierare il partito
socialista contro il futuro inutile massacro (che costerà al
Paese 600.000 morti, oltre a centinaia di migliaia tra mutilati ed
impazziti) in larga prevalenza semplici contadini, impreparati
culturalmente ad affrontare tale violenza. Per impedire la guerra i
socialisti non avevano scartato neppure l'ipotesi
dell’insurrezione generale. Nel maggio 1915 scrisse:
«L'Italia ha voluto la guerra, si è poi detto; e ognuno ha
visto l'Italia nelle dimostrazioni di studenti che non si arruolano, di
impiegati che si sono assicurati l'esonero dal servizio militare e la
paga intera per tutto il tempo di guerra. Ognuno di noi ha visto
l'Italia in quella masnada di gente che dopo aver per anni piegata la
schiena a Giolitti, attendendone favori, ieri è uscita per
comando sulle porte dei Ministeri e ha ottenuto mezza giornata di
vacanza perché andasse a dimostrare. Ognuno di noi ha visto il
degno poeta d'Italia in quel piccolo mantenuto di donne, fuggito in
Francia per debiti e restituitoci per porto affrancato dalla
massoneria repubblicana [D'Annunzio]...».
LUNGIMIRANTE E FEDERALISTA. Bisogna sapere che larga parte della
sinistra, prima dell’ultima guerra, aveva idee diverse e assai
più critiche sull’Italia unita. Così, anche
Matteotti considerava più avanzate quelle soluzioni (già
allora applicate in varie parti d’Europa) che garantissero
autonomia e libertà a popoli diversi, a prescindere dalle
questioni sui confini (in analogia con le odierne tesi federaliste, in
contrasto con il dogma dell’"indivisibilità" dello Stato,
postulato nell’odierna carta costituzionale). Potenziare gli enti
locali è un tratto peculiare del suo pensiero.
POLITICO RIGOROSO ED INCORRUTTIBILE. Eletto in Consiglio Provinciale di
Rovigo esprimeva sempre la sua posizione con chiarezza e competenza,
preciso fino alla pedanteria, anche a costo di dispiacere ai suoi
compagni di militanza. Si opponeva spesso al ricorso sistematico alle
deliberazioni d'urgenza. Costante attenzione dedicò ai
contratti che l'amministrazione stipulava con le imprese private
appaltatrici di grandi opere (p.e. le concessioni accordate alla
Società Vicentina per la rete tranviaria). Le sue denuncie
provocheranno le dimissioni di Casalicchio, presidente del Consorzio
granario. Organizzatore di leghe e di cooperative, consulente di
amministrazioni comunali e amministratore egli stesso, revisore severo
di bilanci, fu definito "propagandista di piccole cose, mediante le
quali tocca la sfera dei principî con schematica
sobrietà". Si occupa di patti agrari, di scuole, di
strade, di telefoni: organizza e guida visite ai musei. Fu
artefice e protagonista di un vitale riformismo che fece scoprire al
mondo contadino nelle campagne della Val Padana, promuovendo nuove
forme di vita associata, sentimenti di solidarietà e di
riscatto. Nella sua operosità quotidiana godeva di enorme
popolarità, per converso facendo apparire la sua figura defilata
all’interno del partito, che spesso rimaneva avviluppato nelle
controversie ideologiche e nelle lotte tra correnti.
MUSSOLINI LO ODIAVA. Il 24 ottobre 1914 Matteotti sul quotidiano La Lotta
plaude alla rimozione di Benito Mussolini (prima rivoluzionario
radicale e agitatore della povera gente, divenuto poi di colpo
nazional-interventista) dalla direzione del quotidiano L’Avanti.
Il futuro Duce - ai tempi della militanza socialista - predicava l'uso
della forza come metodo costante di lotta (il 27 settembre 1911 Benito
fu arrestato a Forlì per aver capeggiato scontri violenti contro
la guerra in Libia), salvo presentarsi dieci anni dopo come l'unico
garante della pace sociale contro le lotte operaie in Italia e
scatenare vent’anni dopo un turbine di orrori sanguinari in Libia
e nel Corno d’Africa.
A FIANCO DEI BRACCIANTI CONTRO IL TERRORE FASCISTA. Il suo
impegno contro la guerra di stato gli costò l'odio dei
possidenti agrari legati alla massoneria. Con strana preveggenza gli
dedicarono uno strano titolo sul loro giornale, Il Corriere del Polesine: "Il Dottor Matteotti deve scomparire".
Il 5 giugno 1916 un suo intervento in Consiglio Provinciale provoca una gazzarra dichiarando a gran voce: «Abbasso
la guerra, questa è una guerra nefasta da noi socialisti
ufficiali non voluta, siete degli assassini, a noi non importa che il
nemico sia alle porte, siete dei barbari in confronto degli
Austriaci. Le manifestazioni patriottiche sono delle provocazioni
ai sentimenti!». Il Prefetto lo denuncia e il tribunale lo
condanna a trenta giorni d'arresto per "espressioni sediziose e
disfattismo". Dopo lungo processo la Cassazione lo proscioglie.
Ma è con la fine della Grande Guerra che esplode una lotta di
classe quale il Veneto, ed in particolare il Polesine, mai avevano
conosciuto. A partire dal 1921 la casta dei possidenti agrari
reagisce contro le conquiste dei poveri braccianti: le leghe popolari
erano riuscite a controllare gli uffici di collocamento (ben 450),
avendo diritto d'intervento nella gestione e distribuzione del
lavoro. Inoltre, la sinistra amica dei contadini ora può
contare su 72 sezioni socialiste, 70 cooperative, amministrazioni a
guida socialista, ecc. I latifondisti fanno un blocco unico con
lo Stato italiano, pilotano il Prefetto, controllano esercito, polizia
e magistratura. In tal modo sono in grado di dare copertura ad
un'inedita campagna di aggressioni e violenze tramite squadre di
picchiatori da essi stessi costituite. Specie durante la notte,
amministratori pubblici (p.e. il Presidente della deputazione
provinciale di Rovigo) subiscono assalti nelle proprie dimore, si
incendiano casolari, i lavoratori e i loro rappresentanti sono vittime
d’imboscate, cadono feriti o uccisi. Le case del popolo
sono date alle fiamme. La reazione dei contadini è di sgomento,
c'è chi intende reagire all'aggressione, ma i dirigenti politici
riescono a placcarli con raccomandazioni e consigli. A Roma il 3
agosto 1921 viene siglato il c.d. "patto di pacificazione"
che limita le attività politiche in cambio della cessazione
delle violenze: i socialisti decidono di accettare loro malgrado, ma i
padroni subito sconfessano l'accordo perché il loro potere si
regge sul terrore. Gli squadristi sono infatti l'unico mezzo per
neutralizzare le organizzazioni dei lavoratori.
Sul Corriere del Polesine la
voce padronale scrive il 9 agosto 1921: «Oggi non invitiamo ma
ordiniamo ai fascisti di tenere pronte le armi perché non
vogliamo in nessun modo e per nessun motivo sottoscrivere il trattato
della nostra morte». Nel giro di pochi mesi si susseguono 20
omicidi. Viene smantellata tutta l'organizzazione
politico-sindacale contadina. La notte del 12 marzo 1921 Matteotti
è sequestrato a Castelguglielmo e insultato per ore, abbandonato
in aperta campagna, dopo aver ricevuto sputi e colpi di pistola
intimidatori. A Padova, dove si è rifugiato, il 16 agosto
1921 è inseguito da tre fascisti in moto che lo aspettano fuori
dalla Camera del Lavoro. Poco dopo Matteotti a Varazze è
ancora minacciato ed insultato per strada. Ovunque è in
pericolo: a Cefalù in Sicilia è aggredito e a Siena
è malmenato. Le camice nere coprono d'insulti anche la
madre, che va a trovarlo a Legnago (VR), dove è esiliato.
Nell’ottobre del 1921, al congresso socialista di Roma, la
spaccatura fra riformisti e massimalisti diventa insanabile.
Nell’anno successivo Matteotti si schiera con i riformisti di
Turati ed esce dal partito dando vita ad una nuova formazione politica:
il partito socialista unitario.
Non è mai stato l’uomo dei compromessi e non è
simile a Turati, tuttavia la decisione per questa svolta deriva dal
rifiuto verso il modello sovietico verso cui tendono tante correnti del
partito socialista, desiderose di ricongiungersi con i comunisti.
ELETTO IN PARLAMENTO: LA STRETTA FINALE. Matteotti fu eletto in
Parlamento per la prima volta nel 1919, in rappresentanza della
circoscrizione Ferrara - Rovigo. Fu rieletto nel 1921 e nel 1924.
L'intransigenza e la durezza di Matteotti verso il fascismo continuano
sino alla sua soppressione fisica. Anche all'interno del suo
partito contrasta in modo frontale gli ammiccamenti di certi
sindacalisti verso Mussolini. Nell'ottobre del 1923 comincia a
mettere assieme la documentazione che darà vita alla sua
cospicua opera Un anno di dominazione fascista.
Alla propaganda del regime contrappone numeri, dati, fatti, scritti;
dopo la sua morte ne vengono vendute in un mese più di 20.000
copie, con edizioni in francese, inglese e tedesco.
Questo trattato dimostra che Mussolini è stato mandato al potere
proprio quando le tensioni sociali si stavano stemperando e che il
fascismo non ha pacificato alcunché. Nella prima parte Matteotti
analizza la grave crisi finanziaria seguita alla guerra, che pure era
stata riassorbita dai governi precedenti: i miglioramenti si devono
solo alla conseguente ripresa economica già impostata in
precedenza. In realtà, nel 1923 la bilancia commerciale
è peggiorata, è aumentato il costo della vita, il salari
sono diminuiti, la disoccupazione è aumentata. Nella
seconda parte fa una rassegna dei principali atti del nuovo governo,
rivolti con forza a favorire la grande impresa e soprattutto le banche,
a dispetto delle dichiarazioni programmatiche. Nella terza il
deputato sviluppa un'aspra critica contro un autoritarismo tutto
all'insegna dello spregio per la legalità. I discorsi
degli esponenti del partito al potere incitano alla becera violenza:
bandi, minacce, intimidazioni, arresti, processi arbitrari, olio di
ricino, esecuzioni sommarie, distruzioni di circoli operai, di sedi di
partito, di abitazioni private, assalti alle aule di tribunale,
violazioni della libertà di stampa, divieti di riunione
sindacale. Grande attenzione egli rivolge alle generali
condizioni di vita e ai mali del mondo dell'istruzione.
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Il 6 aprile 1924 si tennero le elezioni politiche, con
una nuova legge elettorale che prevedeva un largo premio per il partito
o la coalizione di maggioranza relativa. Le operazioni di voto
erano state ovunque turbate da violenze ed intimidazioni tali da
garantire la vittoria del governo. Il 24 maggio i fascisti
riunirono la Camera con l'intento di rivendicare la "vittoria bellica",
ricorrendo quel giorno il 9° anniversario della dichiarazione della
Grande Guerra. Vittorio Emanuele III dichiarò nel discorso
inaugurale che: «oggi la stessa generazione della vittoria regge
il governo e costituisce la grande maggioranza dell'Assemblea
elettiva».
Il 30 venne proposta dalla giunta delle elezioni la convalida di quasi
tutti gli eletti. Giacomo Matteotti prese la parola. Nel suo
memorabile discorso denunciò fuori dai denti fatti e
circostanze, i soprusi subiti dai candidati delle opposizioni, a cui
era stato persino impedito di circolare nelle circoscrizioni, costretti
persino a cambiare residenza, venendo alcuni assassinati. Indicò
una serie di illegalità compiute: formalità notarili
impedite, incetta di certificati, divieto di assistere al voto,
fascisti introdotti nelle cabine. Concluse chiedendo che la
consultazione fosse annullata. Si immagini l’atmosfera in
cui il Nostro dovette parlare: l'intervento che poteva durare una
ventina di minuti per essere pronunciato, si protrasse per oltre un'ora
per la gazzarra e le interruzioni continue della destra. Scrisse
a caldo Filippo Turati: « Fui
entusiasta di Matteotti. Era il mio gran patema che la discussione
sulle elezioni ci trovasse impreparati, cogliendoci
all'improvviso. Così fu infatti, ma Matteotti seppe
improvvisare e tener duro con tutta la vigoria della sua volontà
e della sua invidiabile giovinezza. E le cose essenziali riuscì
a dirle malgrado un baccano infernale».
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Ai compagni che si congratulavano con lui, il deputato veneto rispose con un sorriso: «Ed ora potete anche prepararmi l'orazione funebre».
In effetti, Mussolini scrisse esasperato sul Popolo d'Italia
del 1° giugno che la maggioranza era stata troppo paziente e che la
provocazione meritava qualcosa di più concreto di una risposta
verbale. Da tempo il Duce aveva fatto costituire una polizia
segreta agli ordini del Partito Nazionale Fascista, denominandola con
macabra ironia Ceka, seguendo
il modello sovietico. Ai suoi membri aveva assicurato l'impunità
per i reati da compiere consapevole che (parole sue): «con il possesso degli organi ufficiali dello Stato abbiamo modo di mettere lo spolverino su tutte le violenze illegali».
La banda aveva compiuto numerosi delitti in Italia e all'estero; a
finanziarla in gran segreto era l'ufficio stampa del presidente del
consiglio.
La sera dell'11 giugno 1924, allarmato dalla famiglia che non lo vedeva
tornare, il deputato unitario Modigliani andava alla Questura a
denunciare la sparizione dell'amico Giacomo Matteotti. Non si sapeva
ancora che la Ceka lo aveva
rapito il giorno prima alle 16,30 sul Lungotevere Arnaldo da Brescia,
mentre usciva di casa. Erano in 5 gli squadristi agli ordini di Amerigo
Dumini che lo trascinarono a forza in un'auto: con lui erano Augusto
Malacria, Albino Volpi, Ettore Viola, Amleto Poveromo (Otto Thierschald
basista). La vittima cercò di resistere ed invocare aiuto, ma
venne colpito più volte e pugnalato. Mussolini in realtà
era stato informato di tutto dal segretario del partito Marinelli, che
gli aveva consegnato la sua tessera da deputato ed il passaporto. La
mattina del 12, infatti, Dumini era andato dal segretario particolare
del Duce, Arturo Benedetto Fasciolo a render conto del "buon esito
della missione". Il 13 giugno alla Camera, fingendo di ignorarne la
sorte, Benito promise alla Camera che avrebbe fatto arrestare i
colpevoli. Dichiarò che la coscienza del governo era tranquilla
e che nessuno doveva strumentalizzare i fatti. Nello stesso giorno, il
13, tutte le opposizioni presero quindi la decisione di disertare i
lavori parlamentari, finché non si fosse visto chiaro nella
vicenda: era la secessione dell'Aventino. I non fascisti prendevano
così atto dell'impossibilità di giocare un ruolo nella
vita pubblica, mentre per Mussolini si apriva la nuova fase della
dittatura totale. Il Duce ordinò quindi al capo della
polizia De Bono, al sottosegretario agli Interni Finzi e a Cesare
Rossi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, di dimettersi e
lasciò arrestare Rossi, Marinelli, Dumini e altri.
Nominò ministro dell'Interno il monarchico Federzoni,
così guadagnò tempo e blandì i Savoia.
Il cadavere decomposto fu scoperto solo in agosto sepolto in una buca
nel bosco della Quartarella, alla periferia di Roma. Il ritrovamento fu
pilotato dal Regime che inscenò un rinvenimento casuale ad opera
del cane di un guardacaccia. "Il Gazzettino" del 17 agosto titolava "Il
cadavere di Matteotti scoperto in una boscaglia. Ha il petto squarciato
da una lima". Era l'ennesima infame montatura: l'autopsia
diagnosticherà ferite da pugnale (familiare agli arditi di cui era composta la Ceka),
ma per far passare l'omicidio come preterintenzionale la salma fu
inumata con una lima conficcata nel petto, come se per il delitto fosse
stata usata un'arma impropria.
Gli storici ufficiali dello Stato italiano - Renzo De Felice in prima
fila - hanno sempre insistito sull'estraneità del Duce
all'organizzazione di questo assassinio. I provvedimenti
giudiziari che la magistratura riuscì ad assumere in mezzo a
mille avversità cagionarono il malumore e l'agitazione delle
camice nere, al punto che Benito il 3 gennaio 1925 si sentì in
dovere di pronunciare un famoso discorso in Parlamento per dare la
necessaria copertura politica ai suoi fedelissimi picchiatori.
Ebbro di un'incontenibile arroganza megalomane, si dichiarò
colpevole del misfatto nell'Aula pubblica (si processò da solo,
trasformando la colpa in onore al merito) in questi termini: «L'art.
47 dello Statuto dice: 'La Camera dei Deputati ha il diritto di
accusare i ministri del Re e di tradurli innanzi l'Alta Corte di
Giustizia'.- Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa
Camera c'è qualcuno che si voglia valere dell'art. 47. Il mio
discorso sarà quindi chiarissimo. Sono io, o Signori, che levo
in quest'Aula l'accusa contro me stesso. Si è detto che io avrei
fondato una 'Ceka': dove, quando, in quale modo? Nessuno potrebbe
dirlo. Si dice: - 'Il Fascismo è un'orda di barbari
accampati nella nazione, è un movimento di banditi e di
predoni'. S'inscena la questione morale... e noi conosciamo la
triste storia delle questioni morali in Italia. Ma poi, o
Signori! Quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di
Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di quest'Assemblea, e di
tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la
responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto
è avvenuto. Se le frasi, più o meno storpiate,
bastano per impiccare un uomo, fuori il palo, fuori la corda! Se
il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e
non invece una passione superba della migliore gioventù
italiana, a me la colpa. Se il Fascismo è stato
un'associazione a delinquere, io ne sono il capo! ».
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Per chi volesse rivivere il clima di quegli anni, ne propone una fedele
ricostruzione il film "Il delitto Matteotti" (1973) del regista
scomparso di recente Florestano Vancini. Memorabili le
interpretazioni di Mario Adorf (Benito Mussolini), Franco Nero (G.M.),
Vittorio De Sica (giud. istr. Mauro Del Giudice), Gastone Moschin
(Filippo Turati). La pellicola risente delle atmosfere plumbee
del cinema impegnato anni '70 e sembra ammonirci sulla natura malefica
di un sistema di potere ancora vivo ai giorni nostri.
I responsabili del delitto (assistiti dall'avvocato Farinacci, uno dei
massimi gerarchi e capo delle camice nere) subiranno un compiacente
processo nel 1926, che sarà portato a Chieti, la città
più fascista d'Italia; condannati a sei anni circa, vengono
rimessi in libertà dopo appena due mesi di detenzione.
Riaperto dopo la cosiddetta liberazione, il processo-farsa si ripete:
sarà riconfermata la sostanziale impunità agli autori di
uno dei crimini più vili ed aberranti di ogni tempo (condanne
all'ergastolo, ma poco dopo quasi tutti fuori: anche Dubini è
scarcerato dopo 9 anni ed impiega il resto della sua vita in liti
giudiziarie per riavere le ricchezze che il regime gli ha elargito come
prezzo dei suoi servigi).
Mauro del Giudice, il coraggioso magistrato che aveva istruito il
processo, aveva assunto la carica Presidente di Sezione della Corte
d'Appello di Roma il 9 aprile 1922, cioè prima della marcia su
Roma. Il ministro fascista di Grazia e Giustizia Oviglio lo
promuoverà a Procuratore Generale di Cassazione per
estrometterlo dal processo. Nel 1954 (3 anni dopo la sua morte)
fu pubblicata la sua opera Cronistoria del processo Matteotti;
nell'ultimo capitolo leggiamo: «A
Chieti la giustizia venne oscenamente stuprata, poiché
colà non si fece la causa per giudicare e punire i delinquenti e
complici ma, invece, cosa che supera i limiti della credibilità,
si fece la causa contro l'assassinato. Infatti furono esaminati
testimoni falsi [tra cui Kurt Suckert, il tanto blasonato scrittore filofascista Curzio Malaparte n.d.a.]
che, con menzognere deposizioni, tentarono oscurare la chiara fama
della vittima infelice, e tutte le arringhe pronunziate nel corso del
dibattimento non furono, in sostanza, che tante requisitorie, specie
quella del Farinacci, difensore del capobanda dei sicari, contro il
glorioso ed eroico Martire della Libertà e delle giuste
rivendicazioni dei diritti del proletariato italiano. Quel pseudo
giudizio pose in chiara luce di fronte al mondo civile inorridito non
solo la corruzione di magistrati ed uomini politici, ma altresì
la corruzione di un intero popolo, che in parte plaudì e in
parte assistette impassibile, senza emettere un solo grido di protesta,
allo spettacolo di tanta infamia, di tanta iniquità. Sono
giunto alla fine della mia ingrata fatica, uscendo dal lurido pantano
di putridume che ho descritto e narrato con la maggiore
obiettività possibile».
Due recenti pubblicazioni, La banda del Viminale di Giuliano Capacelatro e Franco Zaina, e Il delitto Matteotti: affarismo e politica alle origini del fascismo
di Mauro Canali sfatano la leggenda dell'estraneità del capo del
fascismo alla pianificazione del misfatto: risulta invece che lo
seguì passo passo. È emerso che Marinelli e De Bono
avevano fatto uscire di galera Otto Thierschald per metterlo alle
calcagna di Matteotti. Lo avrebbe dovuto eliminare nel corso di un
viaggio in Austria, facendo apparire il delitto come una faida tra
socialisti. Per indurlo a quel viaggio, infatti, De Bono fece
restituire il passaporto a Matteotti, che però vi
rinunciò. Il discorso che costò la vita al nostro
deputato forse non fu quello del 30 maggio, ma quello che aveva
preparato per l'11 giugno e che non fece mai. In quell'occasione
avrebbe potuto divulgare un dossier sui loschi traffici che facevano
capo ad Arnaldo Mussolini e al re d'Italia. Si tratta di una
storia complicata che aveva al centro una concessione petrolifera cui
mirava il colosso americano Standard Oil (multinazionale dei
Rockefeller). Dietro c'era il versamento di tangenti per
finanziare il P.N.F. e i giornali fiancheggiatori del Regime.
Matteotti era stato clandestinamente in Inghilterra dove era stato
rifornito di documenti dal governo di Londra (tramite la loggia
massonica The unicorn and the Lion),
interessato a difendere la Anglo Persian contro l'americana Sinclair
Oil Company, controllata dalla Standard Oil. Il colpo d'immagine
che il regime avrebbe potuto ricevere dallo scandalo sarebbe stato
assai più grave degli abusi e delle violenze in campagna
elettorale denunciati nella famosa seduta del 30 maggio.
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Giugno
2007
A cura di
Edoardo Rubini
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