Il 1848 nel Veneto |
50 anni dopo la Serenissima
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Il
1848 è una delle date più importanti della storia, al
punto da segnare un intero secolo. Non esiste un'unica chiave di
lettura che da sola possa riassumere in sé le tensioni e le
motivazioni che portarono mezza Europa a rivoltarsi contro l'ordine
costituito. Che appellativo merita il '48?
"Primavera dei popoli", come exploit dei nazionalismi europei, o "Prima
guerra d'indipendenza", come fu celebrata dalla retorica
patriottico-savoiarda? Riscatto della classe lavoratrice
oppressa, in sintonia con la Comune di Parigi celebrata da Marx, oppure
congiura dei poteri occulti pilotata da una internazionale
anglo-ebraica, come denunciato dagli ambienti tradizionalisti? E
ancora: nel Lombardo Veneto si combatté davvero per un'idea
nazionale italiana? La generalità del popolo veneto questi
italiani li riconosceva come fratelli, oppure guardava a loro come
foresti?
Analizzando con calma i fatti, possiamo considerare una prospettiva
più vicina al sentire di allora. Il grande anelito di
libertà che all'improvviso contagiò tutto il Veneto
seguiva le tracce di una Patria sentita ancora tale da milioni di
Veneti, una Patria che vantava 14 secoli di indipendenza. Questo
comune sentire non fu suscitato dai fumi ideologici che si levavano
dagli affiliati dei clubs carbonari (e che ex post vennero indicati
come il deus ex machina di ogni avvenimento). L'avvicinamento del
Veneto ai destini politici della penisola in quel tempo fu dovuto
all'esigenza di tirarsi fuori dal giogo austriaco, un governo straniero
distante da quel senso di appartenenza che aveva sempre legato i Veneti
alla Serenissima.
Siccome appariva improbabile una lotta di liberazione fatta da soli
contro l’Impero, la classe dirigente veneta si richiamò
esplicitamente, expressis verbis, ad un'idea federalista, secondo la
quale i popoli italici si sarebbero aiutati a vicenda costituendo un
fronte comune; certo nessuno allora immaginava di finire schiacciato da
un regime fanatico e sanguinario, guerrafondaio e sfruttatore, quale si
dimostrerà il Regno d'Italia. Una dozzina d'anni
più tardi, quando tutte le comunità rurali della
penisola, e con esse gli ambienti popolari cittadini, si ritroveranno
oppressi da un governo di gran lunga peggiore di quelli che
precedettero la tanto mitizzata "unità", le condizioni generali
di vita dei ceti minori crolleranno in pochi mesi a livelli mai visti
di miseria spaventosa.
Sullo sfondo, l'orchestra politica internazionale suonava
un'antifona ormai facile da orecchiare: Carlo Alberto per muoversi
voleva come contropartita l'acquisto alla sua corona di tutti i
territori irredenti. Perché tali mire nel 1848 non
poterono essere soddisfatte? Il disegno sabaudo fu osteggiato da
tre correnti politiche avverse: 1. I patrioti delle piccole Patrie,
come Daniele Manin e Niccolò Tommaseo (che - ad esempio - si
richiamavano in senso ideale alla Repubblica Serenissima, pur seguendo
un modello istituzionale aggiornato) evitarono il più possibile
di legarsi al dominio piemontese; 2. Sovrani cattolici come Papa Pio IX
e i Borboni caldeggiavano, con lungimirante acume politico, una
federazione italiana di Stati cristiani svincolata dal tallone della
maggiore potenza imperialista (la Gran Bretagna), ma anche dal giogo
italiano-liberale, ed appoggiarono Veneti e Lombardi addirittura
schierando in campo i loro eserciti contro la cattolica Austria; 3. Le
forze sovversive più virulente e violente che facevano capo a
Giuseppe Mazzini (capo segreto di una rete occulta internazionale che
faceva capo a Londra, come del resto vi fece riferimento Garibaldi)
erano protette ed armate dall'Inghilterra e rigettavano radicalmente
l'idea di monarchia, quindi contrastarono in quel momento il dominio
sabaudo. Le cospirazioni mazziniane furono concepite dalla rete
di potere occulto anglosassone come una forza di sfondamento che doveva
aprire la strada alle invasioni straniere di c.d. liberatori attraverso
la violenza sovversiva. Così, a differenza di quanto
avvenne con lo sbarco dei Mille nel 1860, il 1848 si presentò
come un movimento ostico per la monarchia piemontese; in particolare,
la corrente carbonara era animata da un repubblicanesimo intransigente,
apertamente ispirato alla Rivoluzione Francese.
Va sottolineato che - caso unico in tutti movimenti rivoluzionari
dell'Ottocento in Italia - nel Veneto ci fu una vera lotta di popolo
contro la monarchia regnante, in quel caso incarnata dagli
Asburgo. In Lombardia il fronte si sfaldò, al punto che
tanti contadini al ritorno delle truppe austriache inneggiarono a
Radetzky, a scorno dei borghesi che avevano guidato la
sollevazione. Occorre, dunque, spiegare come mai solo in una
parte del Regno Lombardo Veneto, cioè nelle antiche terre di San
Marco, il popolo nel suo complesso - tanto nelle città (ceto
borghese, intellettuali e popolo minuto) quanto nelle campagne
(contadini, piccoli artigiani, professionisti e persone istruite) -
abbiano avuto l'impulso di sollevarsi tutti insieme.
Ciò, poi, contrasta con le insurrezioni successive, che ebbero
l'obiettivo ufficiale di fare l'Italia unita: esse vedranno la
Carboneria e le sette segrete operare con congiure e sanguinosi
attentati, con milizie arruolate di nascosto tra gli adepti delle
società segrete, che in ogni caso dovettero fronteggiare non
solo gli eserciti monarchici, ma - soprattutto al Sud - il popolo
inferocito, quella semplice gente di paese che andava a respingere i
cosiddetti “patriotti” armata di forconi e fucili da
caccia, menandone strage o consegnandoli alle autorità.
Non v'è dubbio che le comunità rurali del Meridione
videro nei Carbonari una forza oscura ed ostile, una grave minaccia al
mondo contadino attaccato alla Tradizione Cattolica, allo stesso modo
in cui i contadini del Nord insorsero contro le armate napoleoniche,
nelle quali avevano visto non solo l'invasore straniero, ma anche i
portatori della rivoluzione liberale, che era la negazione di tutti i
loro valori, spirituali ed umani.
Nei secoli XVII e XVIII le idee illuministe avevano contribuito a
forgiare l'assolutismo. La Rivoluzione Francese segnò il
momento in cui la legittimazione del potere si staccò in via
definitiva da Dio. Fino ad allora il popolo aveva percepito la
legittimazione della politica proprio nella sua discendenza
dall'Eterno. Infatti, alla mentalità popolare rimase
sempre estranea l'idea di far derivare da un pezzo di carta il modello
di società, in forza di un atto politico-giuridico sintesi di
principî astratti (le c.d. "libertà borghesi").
L'effetto prodotto dalle Costituzioni cartacee fu quello di accentrare
il potere pubblico in poche mani, strapparlo dalla Tradizione e ridurre
la società a materia bruta, che lo Stato ha ora il sacro compito
di plasmare a suo capriccio.
Ma veniamo ai motivi per cui nel 1848 il popolo si sollevò quasi
all'unisono contro l'Impero asburgico. Il Congresso di Vienna del 1815
non aveva affatto messo riparo alle violenze perpetrate dallo sconfitto
Napoleone, ma vi aveva dato una sorta di sanzione definitiva: il
Congresso stabilì la soppressione della Repubblica di San Marco,
la più prestigiosa, longeva e popolare generata dalla storia,
per assorbirla in quell'artificiosa e ambigua creazione che fu il Regno
Lombardo Veneto, un precario simulacro di autonomia nelle mani di
Vienna. Va ricordato che la Veneta Serenissima Repubblica, che
per secoli era stata additata dai più illustri politologi come
miglior esempio di democrazia (benché avesse forma
aristocratica), fu conglobata nel 1815 nell'imperiale Regno
Lombardo-Veneto al termine di vent'anni di guerre napoleoniche con
un’operazione disinvolta, ammantata da giustificazioni giuridiche
inesistenti. La gloriosa Repubblica di San Marco fu trattata come
preda bellica al termine di una guerra alla quale essa era rimasta
neutrale ed estranea dal primo all'ultimo minuto; anzi va rimembrata la
viltà estrema del pseudo-eroe Bonaparte, che le dichiarò
guerra dopo aver proditoriamente violato la pace, dopo aver circondato
Venezia e solo pochi giorni prima di schiacciarla.
Oltre a questo, va osservato che tutti gli Stati rimessi in piedi dalla
Restaurazione, in realtà, non erano più gli stessi di
prima. La Rivoluzione liberale aveva vinto nelle idee, prima
ancora che nei campi di battaglia, penetrando in profondità
nella cultura politica dei regnanti, persino in casa d'Asburgo.
A scuola si dice che gli intellettuali liberali che influenzarono le
corti regnanti ne avrebbero attenuato le tendenze autoritarie (si parla
di "monarchie illuminate"). È vero il contrario. Anche il
mondo asburgico tra Sette ed Ottocento assorbì lo spirito dei
tempi, irrigidendo lo Stato in un megalitico apparato burocratico.
Non era stato così nel passato. Il Sacro Romano Impero
nell'Alto Medioevo aveva tratto il suo motivo fondante nella difesa
della Cristianità dal dilagare di Unni, Avari ed Arabi prima e
dei Turchi poi. Si trattava di un meraviglioso mosaico di popoli,
ognuno per lo più autonomo sul proprio territorio. Per
secoli la Civiltà Cristiana aveva trovato un grande equilibrio
unificatore su due principî: la Maestà Temporale (sfera
politica) e la Maestà Divina (sfera religiosa). La
versione ottocentesca dell’Impero assomigliava, invece, ad un
soffocante Stato poliziesco, dove spie e delatori la facevano da
padrone, per di più agendo sotto la pressione del nazionalismo
austro-tedesco.
Il governo di Vienna durante l'Ottocento sembrò aver smarrito i
valori cristiani che ne avevano animato l'opera per secoli; guidato da
un'ottusità a volte ingenua, sembrava ignorare la desolante
situazione in cui erano scivolate le classi popolari nelle sue terre ed
agiva quasi volesse coalizzare i propri nemici a proprio danno.
Tuttavia, qui occorre fare una distinzione fondamentale: gli errori
dell'Austria furono tutti di natura politica, ma non ebbero il
carattere di deliberato sfascio sociale e morale che avranno con il
Regno d'Italia. Vediamo alcuni aspetti sgraditi della politica di
Vienna. La Serenissima aveva paternamente difeso per secoli tanto
le comunità rurali quanto le città venete, sviluppando
tutti i comparti economici e produttivi, mantenendo gli usi collettivi
ed i beni civici (che coprivano dal 20 % al 40 % del territorio);
questi ultimi si rifacevano a consuetudini antichissime, che
consentivano ai ceti popolari poveri di raccogliere legna e pascolare
il bestiame a gratis in vaste estensioni di terreno. Questo sistema
tradizionale di utilizzo delle risorse pubbliche garantiva una
dignitosa possibilità di sostentamento anche ai più
poveri. L'Austria vessò le classi popolari, tanto per
cominciare emanando una legge nel 1839 con cui svendette tutti i beni
comunali alla ricca borghesia. Una riforma agraria operata al
contrario, che ebbe l'effetto di una condanna alla schiavitù per
i ceti popolari che vivevano nelle campagne e in montagna. Gli
Austriaci davano l’impressione di vendicarsi di quel popolo
veneto che aveva osato crescere libero e felice per secoli, giungendo a
mettere in ombra l'Impero già al tempo della guerra contro i
Franchi, nel IX secolo. Si ricordi poi la guerra che Massimiliano
d'Asburgo mosse nel '500 assieme al Papa e alla Lega di Cambrais contro
la nostra Repubblica. I suoi assalti poterono essere respinti
soprattutto grazie all'eroismo del contado veneto. Si consideri anche
lo sviluppo economico, manifatturiero e agricolo promosso da Venezia
nel Settecento in Terraferma: i primi insediamenti industriali veneti
si distinsero in Europa grazie alla brillante conduzione del patriziato
lagunare, mentre nelle mani di Vienna l’asse dello sviluppo
produttivo si spostò a tutto vantaggio dei lombardi, come pure
il porto di Venezia fu affossato a beneficio di Trieste, e così
via.
Ma qui dobbiamo dare a Cesare quel che è di Cesare:
l'amministrazione austriaca era onesta ed efficiente e ancora informata
a quella carica di onestà e di servizio ai cittadini con cui
viene rimpianta ancor oggi. Che fine ha fatto quella classe
dirigente locale, legata alla tradizione cattolica? Un mistero
per i più, che certamente non avranno mai sentito parlare del
marchese Gioacchino Napoleone Pepoli, che sarà mandato nel 1866
da Casa Savoia a fare piazza pulita di dipendenti pubblici, dei
professori dell'Università di Padova, dei rappresentanti
politici nelle congregazioni provinciali e nelle deputazioni comunali
con l’accusa di essere "austriacanti" (oltre a imporre tante
altre “riforme”, quali l'espropriazione radicale degli
istituti ecclesiastici che assistevano i poveri, l'abolizione degli
ordini religiosi regolari, il matrimonio civile, la scuola di Stato,
ecc.). Ebbene, a seguito di questa gigantesca epurazione, i posti
di pubblico impiego, anche di prestigio, andranno ai compari liberali e
libertini al par suo, in gran parte importati dalle lontane lande
meridionali. La totale sottomissione dell'apparato pubblico agli
adepti liberal-savoiardi (da noi ancor oggi la casta dominante è
antiveneta) darà poi luogo a quella rete di corruzione e di
camorre che rende ancor oggi famosa l'amministrazione italiana in tutto
il mondo.
L'Ottocento portò il più grave flagello di miseria e di
decadenza che la storia avesse mai riservato al nostro popolo, che
appariva sottonutrito e afflitto dalla pellagra nelle campagne, o
cencioso e ridotto all'accattonaggio nelle strade cittadine.
Finché ha governato Vienna, l'idea di un riscatto nazionale ha
trovato facile esca in una situazione di oppressione politica ed
economica che colpiva trasversalmente e in forme diverse tutte le
classi sociali (fatta esclusione per i soliti collaborazionisti).
Quando Roma prenderà il suo posto, al tracollo economico si
sommerà uno sconvolgimento morale e sociale, esasperato dal
continuo fomentare guerre coloniali e mondiali da parte
dell’apparato filo-massonico savoiardo.
Nessuno, però, a metà Ottocento avrebbe potuto
prevederlo, perché l'idea prevalente non era uno stato unitario,
ma di stampo federale. La vasta partecipazione popolare
all'insurrezione si dovette anche al riferimento istituzionale che fu
prescelto, con piena consapevolezza, nello stabilire il nuovo ordine:
il 22 marzo 1848 fu proclamata ufficialmente in piazza San Marco la
"Repubblica Veneta" (non "di Venezia" come viene detto da qualcuno con
calcolata inesattezza: anche dopo la perdita della Terraferma, non
furono mai deliberati nomi diversi).
Questo è il motivo per cui vi fu una sollevazione corale di
tutto il Veneto ed il Friuli, fatto che non avverrà mai nel
cosiddetto "Risorgimento Italiano" (tutto intessuto all'interno di
società esoteriche e trame internazionali). Il nazionalismo
italiano fu una costruzione artificiosa di matrice illuministica,
quindi incomprensibile ai ceti popolari, mentre il ricordo ancora
fresco della Serenissima - 14 secoli di libertà e giustizia per
tutti - era un ideale che qualunque veneto era in grado di abbracciare,
se non ancora come coscienza nazionale, almeno nel non lontano ricordo
che un tempo le cose andavano in modo diverso.
E proprio questa fondamentale spinta popolare, spontanea e genuina, ne
spiega il fallimento. Il '48 non godette infatti del necessario
appoggio delle grandi potenze. Nessuno Stato straniero ebbe
interesse a far rinascere un popolo libero come lo era stato fino a
mezzo secolo prima. La Francia si mobilitò in un primo
tempo per fornire ai Veneti un appoggio militare che avrebbe potuto
dimostrarsi decisivo, ma fu fermata dall'Inghilterra e dal Piemonte,
che vedevano assai male un movimento di liberazione nazionale sorto
fuori dal loro controllo, in particolare non condizionato dalle trame
internazionali che metteranno - una ventina d'anni dopo - la museruola
illuminista-liberale alla cosiddetta unificazione italiana.
Venezia terrà duro da sola un anno e mezzo, in una resistenza
eroica e disperata, assediata e bombardata sotto gli occhi sbigottiti
di tutto il mondo, strangolata dalla fame e dal colera.
Così i signori della politica internazionale resteranno tutti
alla finestra a guardare l'ottusa Austria intenta ad annichilire il
nostro popolo, aspettando il giorno che assedianti ed assediati, ormai
esausti, sarebbero stati facile preda delle nuove emergenti
superpotenze liberali.
Come per il 1797, anche nel 1848 gli storici rimprovereranno ai
Veneziani di non aver sostenuto la terraferma veneta p.e. rifornendoli
delle armi requisite all'Arsenale e nelle caserme lagunari durante la
sollevazione di marzo (30.000 fucili), oppure provando a riarruolare la
grande massa di contadini veneti e friulani che avevano disertato dai
ranghi asburgici.
Lo sviluppo degli eventi meriterebbe un’analisi dettagliata, ma
in ogni caso si può affermare che Daniele Manin fu un leader di
assoluta levatura politica, strategica e morale, dotato di un
ascendente fortissimo sulla compagine politica e militare; egli
conquistò il cuore del popolo, che lo seguì
instancabilmente in qualsiasi sua scelta.
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Operò
il miracolo, che nessuno di noi oggi potrebbe neppure concepire, di
tenere in piedi una società ed un'economia per oltre 17 mesi in
condizioni terribili, in perpetuo stato d'assedio, sotto le bombe,
messo sotto pressione non tanto dal nemico, quanto dalle brame
espansioniste di Carlo Alberto e dalla follia rivoluzionaria dei
mazziniani: arrivò persino a respingere le pelose proposte di
"aiuto" (tra virgolette) di Garibaldi. Oggi c'è chi
sostiene che le genti venete si sarebbero dovute trasformare in un
poderoso presidio armato in grado di respingere le incalzanti armate
austriache: forse si pretende un po’ troppo.
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In
realtà, la gran parte dei nostri contadini non avrebbe mai
voluto saperne d'imbracciare un fucile, se non per difendere il proprio
villaggio, come facevano le Cérnide sotto la Serenissima.
E poi, chi avrebbe potuto guidare questa forza militare, se eccezion
fatta per Venezia non c'era una classe dirigente da mettere alla testa
di un movimento veneto di liberazione nazionale? Si pensa davvero
che Venezia avrebbe potuto controllare ogni cosa da tanta
distanza? L'insorgenza era riuscita in tutto il Veneto e Friuli
perché tutti si erano sollevati allo stesso tempo ognun per
sé, salvo mettersi tutti sotto l'ala della rinata Repubblica
Veneta, che però non era tenuta salda in un blocco politico con
il resto del territorio. Il problema non era Venezia. Il
problema erano le città venete e friulane. Per secoli il
patriziato veneziano aveva protetto le comunità rurali dalle
prevaricazioni dei nobili del posto e così si sarebbe dovuto
fare nel 1848, perché non era facile che i signorotti di
campagna trovassero un'unità d'intenti con i contadini. Il
ceto benestante di possidenti e latifondisti era stato favorito
dall'Austria, come in seguito i grossi borghesi abbracceranno il nuovo
regime savoiardo. Manin e Tommaseo avrebbero anche potuto
rimettere in piedi la Nazione, ma non certo nell'arco di un anno e
mezzo e con le artiglierie imperiali puntate addosso.
Daniele Manin e la nuova Repubblica Veneta
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Nel
quadro di decadenza che affliggeva sia Venezia che il Veneto, il 13
settembre 1847 si apriva a Venezia il IX Congresso degli Scienziati
italiani, presieduto dal principe Giovannelli, per l'iniziativa
soprattutto di Manin e Tommaseo; furono pubblicati in quell'occasione i
poderosi volumi "Venezia e le sue lagune", al cui interno Manin
produsse un pregevole saggio sulla giurisprudenza veneta. Riunendo
l'elite intellettuale si facevano circolare le idee, si stabilivano
contatti e si favoriva la presa di coscienza sulla situazione
politica. Difatti i due leaders colsero l'occasione per avanzare
richieste politiche a beneficio dei Veneti. Il Congresso si
concluse il 29 settembre, ma già il 18 gennaio 1848 furono
arrestati entrambi.
Due mesi dopo, il 17 marzo arrivò da Trieste un piroscafo che
portò notizie di sommosse nelle strade di Vienna e la caduta di
Metternich. Allora una folla enorme si raccolse in piazza San
Marco acclamando alla liberazione dei due prigionieri; pur esitando, il
governatore Palffy acconsentì a rilasciarli, con l'intento di
impedire una sollevazione generale, sicché la folla portò
il Manin in trionfo per la città. Sin dal 3 gennaio 1848
l'Austria aveva imposto la legge marziale a seguito dei disordini a
Milano. Nel Lombardo Veneto aveva dislocato 50.000 uomini: 13.000
a Milano, 8.000 a Venezia, 13.000 nel Quadrilatero. Si noti come nel
corso di tutto questo marasma i Veronesi, caso unico in tutto il
Veneto, restarono del tutto estranei agli eventi perché
imbrigliati nel sistema difensivo asburgico.
Ma lungi dall'essersi ristabilito l'ordine, il giorno dopo, il 18, gli
studenti di Padova e i Nicolotti (popolani di Cannaregio e Dorsoduro),
si concentrarono in piazza e scoppiarono tumulti. Disselciarono i
maxegni scagliandoli contro i soldati, che aprirono il fuoco: nove
feriti gravi e otto veneziani morti. A quel punto la
Municipalità ottenne il permesso di formare una guardia civica
di duecento effettivi, ma in poche ore ne arruolò 2.000.
La sera del 18 arrivò la notizia che l'Impero aveva concesso lo
Statuto e gli animi sembrarono quietarsi, ma Manin continuò a
prendere accordi segreti con elementi della Marina militare: puntava a
prendere l'Arsenale.
Il 22 fu la volta degli Arsenalotti, cioè i popolani di Castello
che lavoravano all'Arsenale. Aggredirono il colonnello
Marinovich, cioè il Capo ispettore che li sovraccaricava di
lavoro e li pagava male. Lo uccisero e la situazione rimise in gioco
Manin, che si recò sul posto con suo figlio Giorgio di 16 anni e
poche guardie civiche. Riuscì ad entrare mentre affluivano a
dargli man forte altre guardie civiche ed operai, dopo di ché
gli ufficiali austriaci ordinarono alla truppa di disperdere
l'assembramento. E qui succedette l'imponderabile, perché i
soldati austriaci, che in realtà erano contadini veneti,
capirono la situazione e si rifiutarono di sparare contro i Veneziani.
Il mistero è che non intervenne neppure il contingente croato,
che in pratica tradì gli Austriaci in favore dei Veneti.
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Il colonnello
Buday, un barone ungherese, sguainò la spada ma fu sopraffatto
dagli arsenalotti. Erano le tre del pomeriggio e la città
era in mano agli insorti. Alle quattro e mezzo Daniele Manin, salito in
piedi su un tavolino del caffè Floriàn in piazza,
concluse un breve discorso davanti ad una folla in delirio con le
parole: - Viva dunque la Repubblica! Viva la libertà! Viva San
Marco! Poco dopo il governatore militare Zichy firmava la
capitolazione davanti alla municipalità. La gran parte
della guarnigione militare di stanza a Venezia passava alla causa
veneta. La notte dopo i membri influenti della borghesia si riunirono
nello stesso luogo e affidarono a Manin il governo.
Il corrispondente di un giornale di Augsburg descrisse così il
clima tra il popolo: «Io vidi alcuni vecchi cadere in ginocchio
piangendo davanti al sacro vessillo [la bandiera di San Marco] e
pregare Dio di lasciarli ancora vivere. Le donne e i fanciulli ne
seguivano l'esempio». L'entusiasmo popolare straripava,
cortei immensi si mettevano in marcia verso San Polo e Rialto, la gente
urlava "Viva la Repubblica!".
La nuova Repubblica Veneta si estese a tutti i territori veneti e
friulani, ma l'impossibilità di organizzare un vero esercito, i
rovesci militari di Carlo Alberto e le false promesse francesi
spianarono la strada alla riconquista austriaca. Il territorio
libero si ridusse in breve alla laguna e ai forti sulla gronda. Il 4
luglio 1848 il governo cedette alle insistenze dei Piemontesi, che
avevano promesso l'invio immediato di 2.000 soldati regolari e aiuti
finanziari, sicché l’Assemblea Provinciale votò una
risoluzione per entrare nel Regno d'Italia con 127 sì e 6 no: ma
fu un voto dettato dalla disperazione, cui erano contrari in cuor loro
gli stessi Manin e Tommaseo, che dovettero dimettersi, ma vi si
adattarono per aggrapparsi all'unica carta che, giocata bene, ancora
poteva sottrarli al totale isolamento internazionale. Tutto
inutile: l'intervento di Carlo Alberto si risolse con la vergogna della
rotta di Custoza (23 luglio 1848) e dell’ignominioso armistizio
firmato dal generale Salasco il 9 agosto, con cui il re fuggiva alle
porte di Milano abbandonando i Veneti e tradendo i Milanesi (dopo aver
impedito ai Francesi di intervenire in nostra difesa). L'11
agosto alle 8 di sera il popolo si raccolse in Piazza San Marco: la
folla prese d’assalto il palazzo governativo nelle Procuratie
Nove cacciando i commissari piemontesi Colli, Cibrario e Castelli e
pretese che il potere fosse rimesso nelle mani di Manin: si era
riformata la Repubblica Veneta indipendente.
L'animo popolare veneziano fu pervicace nel difendere l'ideale
repubblicano ed ostinato nel sentimento nazionale veneto: di
conseguenza non perdette occasione nel dimostrare avversione verso la
dinastia sabauda e l'idea di una "fusione", come allora si era voluto
chiamare l’annessione. I gondolieri coniarono una
canzonetta che dileggiava i fusionisti: «No intendo ben sto
termine che sento dir "fusion"; me par che i se dexmentega de metar
prima un "con"». I pescatori di Santa Marta fecero due
energiche manifestazioni antimonarchiche con le loro fiocine in piazza,
cui si aggiunsero anche i barcaioli e i tagliapietra: ne seguirono
addirittura alcuni arresti per la troppa irruenza usata. Testimonia
Dell'Ongaro: «chi xelo sto sior Carlo Alberto? - chiedevano le
buone donne di Castello e di Santa Marta - Nu no volemo che el nostro
Manin e el nostro Tommaseo».
L'italianità era un sentimento sconosciuto ai vari popoli della
penisola, connotati da identità etniche del tutto diverse,
formatesi in tanti secoli: ancor oggi possiamo riscontrarle.
Inoltre, tanti episodi mostrarono che i Veneti tendevano a costituirsi
come nazione a parte. Le truppe italiane non legarono affatto con
il popolo veneziano. La notte del 23 luglio 1848 tra l'altro vi
furono zuffe sanguinose tra popolani di San Pietro di Castello e
soldati romani, mentre il 17 febbraio 1849 tra i Nicolotti di San
Leonardo e militi napoletani.
Purtroppo la riconquista austriaca della Terraferma fu rapida,
perché al governo di Manin mancò un adeguato supporto
militare. La difesa del territorio veneto si affidò alla
resistenza locale. Fecero eccezione alcune pagine gloriose,
seguite ad iniziative intraprese dalla capitale lagunare. Da
Venezia il 5 aprile partirono centinaia di volontari per la fortezza di
Palmanova, mentre tra l'8 ed il 14 aprile furono migliaia gli armati ad
accorrere e a combattere in difesa di Vicenza, capeggiati dallo stesso
Manin. Soprattutto vi fu la leggendaria resistenza dei Cadorini:
sotto il comando del militare di carriera noalese Pier Fortunato Calvi
furono messi 400 volontari e 4.000 guardie civiche, che
riuscirono a bloccare la calata di 8.000 effettivi austriaci per tutto
il mese di maggio 1848. Cadendo una città dopo l'altra, il
20 giugno 1848 il nemico poté prendere Mestre. I Veneziani
formarono un sistema difensivo su cinque fortificazioni sulla gronda
lagunare, che resistettero eroicamente quasi un anno.
Il 2 aprile 1849 i deputati dell'Assemblea Permanente di Venezia,
eletti a suffragio universale maschile e dal 70 % degli aventi diritto,
votavano la seguente risoluzione: «L'Assemblea dello Stato di
Venezia in nome di Dio e del Popolo, unanimemente decreta: Venezia
resisterà all'Austriaco ad ogni costo. A tale scopo il
Presidente Manin è investito di poteri illimitati».
Il 24 maggio 1849 gli arciduchi austriaci e gli ufficiali dello Stato
maggiore osservarono comodamente con i loro cannocchiali dalla torre
civica di Mestre il loro tenente maresciallo Thurn precipitare sulle
teste dei resistenti il fuoco concentrato di 150 pezzi
d'artiglieria. Così, la notte del 26 maggio la guarnigione
veneta sui forti di gronda fu costretta ad evacuare. La punta
avanzata della difesa divenne allora il cosiddetto "Piazzale
Maggiore". In pratica furono fatte saltare in aria alcune campate
del ponte ferroviario translagunare e costruita all'estremità
una piazzola per sistemarvi una batteria: essa si nota ancor oggi in
parte conservata sullo spiazzo erboso vicino ai binari, dove sono stati
lasciati un paio di cannoni. Questa postazione si appoggiava
all'avamposto dell'isola di San Secondo. Ambedue venivano
bersagliate di continuo dalle postazioni nemiche situate a San
Giuliano, sicché ogni giorno dovevano essere ricostruite e
rifornite a caro prezzo di vite umane. La notte tra il 6 ed il 7 luglio
un coraggioso contingente austriaco assaltò la piazzola alla
baionetta, però l'attacco fu respinto dopo aspro combattimento.
Il colpo di grazia alla resistenza cittadina lo diedero il
cannoneggiamento della città dalle nuove postazioni conquistate
dagli Austriaci nel margine lagunare e la dilagante epidemia di colera,
che sterminò 2788 persone. Il popolo di Venezia si
accaniva in una lotta senza speranza: tormentato dalla fame e dagli
stenti, mentre non sapeva più che dar da mangiare ai suoi figli,
quando vedeva passare i suoi governanti, invece di invocare la resa,
urlava loro di non voler giammai consegnare la città al nemico.
Nell'isola di San Pietro di Castello si cominciarono ad ammassare
all'aria aperta i cadaveri che non si riusciva a seppellire; si
moltiplicavano gli orfani di guerra, tutte le famiglie di Cannaregio
furono sfollate ed ammassate negli altri sestieri. I morti per
causa violenta di guerra ammontarono a 1015, senza contare quelli dei
primi giorni di disordini.
Il 24 agosto 1849 gli Austriaci tornavano ad occupare la città
rendendole l'onore delle armi; agirono con rispetto e lealtà,
non arrestarono nessuno e si limitarono a stilare una lista
comprendente una quarantina delle personalità maggiormente
compromesse con la sollevazione durata 17 mesi, che venivano quindi
avviate all'esilio.
Dovendo trarre le somme da questa drammatica ed intensa esperienza, si
può dire che i Veneti resero la più alta testimonianza di
attaccamento alla loro Patria con impegno unanime, prodigandosi in una
epica lotta senza quartiere. Con essa Venezia cancellò persino
le ombre del 1797, laddove la vulgata storica ricorrente parla ancor
oggi di caduta ingloriosa. Ma se guardiamo agli effetti politici
prodotti dalla sollevazione, ebbene furono un vero disastro (come per
tutte le rivoluzioni, d'altronde). Le energie della nostra gente
furono annichilite in un sol colpo. Si preparò nel modo
peggiore l'avvento dell’infausto Regno d'Italia, che trovò
nelle Venezie una terra prostrata e priva di solida e consapevole
classe dirigente. Gli Austriaci, infatti, resero la loro politica
ancor più opprimente verso lo spirito di libertà del
nostro popolo.
Un'ultima parola va spesa per Daniele Manin, accusato da certe parti di
essere un intrigante legato alle società segrete. I fatti
esaminati con spirito imparziale mostrano il contrario, un eroe veneto
dei più puri, che per la difesa del suo popolo diede tutto se
stesso, sacrificò la famiglia, la professione, gli averi,
finì esule quasi in miseria, rifiutando persino i sussidi
offertigli e mantenendosi all’estero con il modesto
insegnamento. Come s'è visto, il 1848 fu un'epoca
terribile, in cui all'improvviso venne meno l’ordine iniquo della
Restaurazione, che aveva preteso di sanare la piaga tremenda della
Rivoluzione Francese senza usare rispetto per i popoli, né
giustizia per i poveri.
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Daniele Manin
era nato a Venezia il 13 maggio 1804. Il nonno paterno, Samuele
Medina, di religione ebraica, si era convertito al cattolicesimo nel
1759, assumendo il cognome della famiglia che lo aveva preso a
protezione: la legge prevedeva che con la conversione al Cristianesimo
il battezzato prendesse il nome del padrino. Strano scherzo della
sorte: questi fu Antonio Manin, fratello dell'ultimo doge di Venezia
Ludovico Manin, quasi ad imparentare chi chiudeva una storia e chi ne
apriva un'altra!
Tutt'altra faccenda fu la Società nazionale italiana che Manin
fondò a Torino nel 1856, un anno prima della morte, avvenuta
durante l’esilio parigino il 22 settembre 1857. Il motivo
dominante dei suoi ultimi giorni sembrava essere una vendetta quasi
ossessiva contro quell'Austria che aveva distrutto la sua
libertà, la sua Patria, la sua vita, il suo futuro, invocando
una redenzione che credeva ormai possibile solo sotto la corona
sabauda. Ben presto, infatti, il Conte Camillo Benso di Cavour
prenderà il totale controllo di detta società e
piloterà la sovversione liberale con i soliti metodi.
Quanto li condivideva il galantuomo Daniele Manin? Giudicate voi da
questa sua dichiarazione apparsa sulla Gazzetta delle Alpi n. 135
del 7 giugno 1856: "Il partito cui appartenni è una mano
d'assassini".
Il 25 maggio dello stesso anno aveva mandato al giornale "Il Diritto"
(che non la pubblicava, ma lo scritto veniva rilanciato dal Times di
Londra) una lettera in cui denunciava l'assassinio politico come metodo
usuale praticato dai liberali italiani; vi si diceva tra l'altro:
«E' cosa che strazia il cuore; è vergognoso il sentir ogni
giorno di fatti atroci, di pugnalate, che succedono in Italia...
possiamo noi negare che una parte di esse è perpetrata da uomini
che chiamiamo patrioti, e che furono pervertiti dalla teoria del
pugnale?».
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25
aprile 2007
Edoardo Rubini
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e dell’economia padana dalle origini ad oggi, Venezia, 1988.
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Pepoli castiga il Bo, "La nostra gente", inserto della "Nuova Venezia".
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