In ricordo dei Nostri Fratelli Veneti “oltremarini”
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di Luigi Zanon
Era finita la guerra da diversi mesi ed eravamo ancora occupati dagli alleati.
Vicino a casa mia c’era un ex convento di pertinenza della chiesa
dei Tolentini, dei frati Teatini, che era stato soppresso dalle
famigerate leggi napoleoniche ed adibito a caserma. Prima c’erano
i militari italiani di non so quale specialità, ma poi fu
occupato dagli inglesi. Davanti a questo ex convento c’era uno
spiazzo, che chiamavamo “campazzo” dove noi ragazzi della
zona si andava a giocare. Allora abitavo in campo della Lana e la
chiesa dei Tolentini era la mia parrocchia.
Un giorno, all’improvviso, gli inglesi se ne andarono e si
trasferirono sui locali di pertinenza del porto perché, ci
avevano detto, stavano per arrivare dei profughi e i locali
dell’ex convento servivano per loro. Inoltre gli inglesi dovevano
sorvegliare questi profughi, ma noi ragazzi non ne capivamo il motivo.
Solo ci accorgemmo che nel nostro “campazzo” si erano
installati gli stessi uomini con il bracciale rosso sulla manica che
qualche mese prima scorazzavano per Venezia a caccia di fascisti e di
tedeschi.
Ci dissero che quelli che arrivavano erano gente che non era italiana,
erano degli “sciavi” traditori e che venivano lì
sistemati in attesa di trasferirli in altri luoghi perché a
Venezia non li volevano.
Ci “consigliarono” anche di non trattare con loro nella
maniera più assoluta perché era gente per nulla
raccomandabile e che se ci avessero visto giocare o parlare con qualche
ragazzo avrebbero preso dei provvedimenti contro di noi…
Dopo qualche giorno arrivarono.
Erano donne, vecchi, ragazzi come noi, bambini piccoli, si portavano
dietro dei sacchi e alcune valige. Era una fila interminabile. Saranno
stati qualche centinaio.
Una volta dentro, gli uomini dal bracciale rosso (che poi seppi che
erano i partigiani della Garibaldi, sezione Ferretto) li accolsero con
grida, sputi, spintoni, imprecazioni, quindi chiusero le porte
dell’ ex convento e rimasero fuori di guardia.
Ogni giorno arrivavano militari, uomini ben vestiti, certi con il
bracciale rosso ed altri con un bracciale verde, ed altri ancora. Dalla
parte del canale – perché su due lati l’ex convento
era circondato dall’acqua – ogni giorno arrivavano barche
sorvegliate dagli inglesi che scaricavano sacchi con roba da magiare. E
proprio dalla parte del rio delle Muneghette noi con il sandolo preso
“in prestito” da Polo ,il pescivendolo di Corte Canal, noi
si andava a spiare e vedere cosa facevano e a parlare con loro.
Passarono così un paio di mesi, poi riaprirono le scuole ed
eravamo già ad ottobre. Mio padre – fortunatamente –
non mi fece mai andare nelle scuole pubbliche, ma dai preti Cavanis.
Quell’anno ero in terza elementare.
Verso i primi giorni di dicembre, alla chetichella, si aggiunsero a noi
e nella nostra stessa classe sei di quei ragazzi che abitavano
nell’ex convento e che avevamo conosciuto solo perché noi
giravamo per i canali con la nostra barchetta e loro erano sempre
affacciati alle finestre, dalle quali uscivano sempre degli odori a noi
sconosciuti. Anche il modo di parlare era diverso dal nostro, seppure
ci si capiva benissimo e le parole erano le stesse.
Ovvio che fra ragazzi ci si parlasse, così come fu ovvio che
qualche cosa ci dissero delle loro condizioni e dei motivi per cui si
trovavano in quelle condizioni.
Ma da parlare con loro come Giulietta e Romeo, cioè noi in barca
e loro dalle finestre, a poter dialogare direttamente a tu per tu
durante la ricreazione era cosa ben diversa! I preti se ne accorsero
che a noi interessava di più parlare con questi ragazzi,
piuttosto che giocare le nostre solite partite di calcio.
Allora vennero in classe, ed anche nelle altre classi dove
c’erano questi ragazzi, dei signori che ci spiegarono i motivi di
quello che stavamo vivendo e chi veramente fossero quei ragazzi e i
loro famigliari.
Erano i Profughi che scappavano dall’ Istria, dalla Dalmazia, ecc.
Ma … non ci avevano insegnato che quelli erano territori
italiani? Anzi: ci avevano detto che erano territori veneziani,
perché i confini di Venezia un tempo arrivavano fino a
lì! Ed ora? Perché li cacciavano?
Dura da capirla a otto anni! Ma un po’ alla volta ci arrivammo! E
diventammo amici: alla brutta faccia dei partigiani col bracciale
rosso, che intanto avevano cominciato ad andarsene del campazzo.
E cos’ iniziammo a frequentarci, ad essere amici, a giocare
assieme, a vivere assieme. Alle volte loro venivano a casa mia, o dei
miei amici, e alle volte eravamo noi ad andare a casa loro. A casa
loro… delle piccole stanze che una volta erano le celle dei
frati, oppure dei grandi stanzoni con dei divisori fatti con le coperte
sostenute da spago o da fil di ferro.
E le loro mamme e i loro nonni iniziarono a raccontare. I loro padri
non c’erano o perchè erano spariti o perchè
qualcuno di loro aveva trovato un lavoro fuori Venezia. Ma i più
erano “semplicemente” spariti, e c’erano altre
persone che da fuori facevano ricerche su dove fossero. Di alcuni
sapevano che erano prigionieri chi in Germania, chi in Russia, e chi ..
chi sa dove…
Ogni tanto si sentivano delle urla e dei pianti di disperazione: erano
i famigliari di quelli dei quali si conosceva la fine: AMMAZZATI E
GETTATI DENTRO LE FOIBE, molti di loro ancora vivi!!!
Era la prima volta in vita mia che sentivo questo nome: foiba! E mi raccontarono!
E raccontarono.
Raccontarono di quando, in piena notte, arrivavano i militari Jugoslavi
– che loro chiamavano i “Tititni” – a cacciarli
fuori di casa con pochi stracci e le loro case venivano immediatamente
occupate dai famigliari dei titini. Del concentramento che avevano
fatto nei pressi dei moli dei porti di Pola, di Fiume, ecc. durante il
trasferimento dalle loro case al porto, diversi di loro sparivano e non
ne sapevano più nulla. Non ne sapevano più nulla,
finchè non vennero a saperlo: in quel modo che ho citato!
Poi furono imbarcati su delle carrette e messi nelle stive per poi
essere spediti come bestie o come merce nei porti italiani. Io posso
dire di come sono stati accolti a Venezia, perché me lo hanno
raccontato loro stessi, non posso dire di come sono stati accolti negli
altri porti, ma da come si è poi saputo, pare che il trattamento
non sia stato differente.
Innanzitutto all’arrivo in rada – fuori dal porto di
Venezia – vennero scortati da imbarcazioni militari con a bordo i
soliti dal bracciale rosso. Una volta giunti a riva, a terra li
aspettavano i militari inglesi che li schedavano, ed assieme agli
inglesi c’erano i partigiani.
Fuori dei cancelli e fuori dal recinto del porto c’erano uomini e
donne che li insultavano, li chiamavano sporchi slavi, fascisti,
traditori, ecc. ecc. E rimasero sul molo del porto di Venezia per tutto
il giorno e tutta la notte, finchè all’alba – dopo
che i recinti del porto si furono svuotati dalla gente, li
incolonnarono e li scortarono – a piedi, anche perché il
tragitto dal porto non era molto lungo – fino all’ex
convento, dove vennero ammassati.
Ogni giorno arrivavano le barche degli alleati a portare loro il cibo,
e non potevano uscire. Solo i ragazzi per andare a scuola, e poi dentro
di nuovo.
E così andarono avanti per un paio d’anni. Ovviamente la
sorveglianza si era molto allentata, anzi: era quasi scomparsa. Ed
allora anche l donne e i vecchi poterono uscire e raccontare!
E molte di quelle donne che prima li offendevano, poi le vidi piangere nell’ascoltare i loro racconti.
E ricordo ancora molti di quei ragazzi e i loro nomi. Con uno di loro
mi sono trovato imbarcato quando navigavo con le navi
dell’Adriatica. Con altri rimanemmo amici. Stilinovic, Buda,
Cavin, Riavini, Bertuzzi, ecc.ecc. Con Stilinovic ci ritrovammo anche
imbarcati assieme nelle navi dell’Adriatica, lui di coperta e io
di camera.
Andando avanti con gli anni, e studiando la storia di Venezia, venni a
sapere che tutti quei territori da cui erano stati scacciati erano
stati da sempre territori veneziani. Specialmente quelli sulla costa.
Ancora da prima che arrivasse Roma repubblicana e imperiale. Poi
ridivennero veneziani sotto la Repubblica Veneta. Anche se gli ungheri
e le popolazioni dei balcani spingevano per arrivare fino alla costa,
quelle furono sempre terre venete!
L’ultima città ad ammainare la gloriosa bandiera di
s.Marco fu la città più meridionale della Dalmazia:
Perasto. E la bandiera veneta ancora giace sotto l’altare del
Duomo di Perasto.
Poi arrivarono gli austriaci. E loro, imponendo l’egemonia su
tutte le terre da loro sottomesse, trasferirono gli abitanti dei
Balcani e dell’entroterra fino alla costa, iniziando così
una pulizia etnica ante litteram. Al punto che depredarono moltissimi
dipinti dalle chiese di Venezia – a quei tempi anche lei
sottomessa all’impero – per trasferirli nelle chiese povere
della Erzegovina, di Zagabria, ecc.
E questa epurazione durò fino al termine della prima guerra mondiale e al disciolimento dell’impero austriaco.
(Però gli austriaci seppero mettere a buon profitto
l’esperienza dei veneti e dei veneti istriano-dalmati, specie
nella marineria! E la famosa battaglia di Lissa lo può ben
testimoniare! Al punto che quella vittoria venne classificata come
l’ultima vittoria della Repubblica di Venezia! Infatti gli
equipaggi delle flotta austriaca erano formati esclusivamente da veneti
e da veneti-istriano-dalmati!)
Allora molti di quei territori ritornarono ad essere italiani.
Finchè non giunsero i comunisti titini slavi che li scacciarono del tutto.
E qui in Italia, anzichè accoglierli come fratelli, li accolsero con sputi e imprecazioni!
Nel nome della politica e della solidarietà comunista dell’epoca!
Ed io ho dovuto vedere tutto questo: all’età di otto anni!
Pensate che me ne possa dimenticare?
Gigio Zanon
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