Aspetti di diritto criminale |
Numerosi testi normativi demandavano all'arbitrium del giudice il compito di decidere intorno a importanti aspetti del provvedimento giurisdizionale: riconoscimento della colpevolezza in carenza di elementi probatori oppure per fatti non previsti dalla legge come reato, validità delle allegazioni in giudizio, determinazione del tipo e dell'entità della pena da irrogare. Questo ha indotto vari studiosi a negare la vigenza del principio di legalità nell'ordinamento veneto; il discorso è complesso e da approfondire, in quanto principî e criteri di applicazione della legge in campo criminale erano assai diversi - e talora antitetici - a quelli elaborati dall'attuale scienza giuspenalistica. In realtà il principio di legalità vigeva - prima di tutto - come subordinazione dei poteri pubblici all'autorità della legge: ne danno prova il giuramento sui capitolari cui dovevano sottostare tutti i magistrati all'atto di insediamento (e la loro rilettura doveva ripetersi a cadenze regolari), nonchè il fitto sistema di controlli e di sanzioni che garantiva l'osservanza della legge da parte degli organi pubblici. In secondo luogo, la legge manteneva un valore insopprimibile, anche se in materia criminale essa non trovava sempre rigida applicazione: poteva infatti essere derogata dal diritto di produzione giurisprudenziale (ossia dalle sentenze delle magistrature maggiori), oppure poteva essere la stessa legge a lasciare ampi varchi alla discrezionalità del giudice. In particolare, i capitoli 9 e 12 della promissione del maleficio del 1232 (relativi a omicidio, rapina e pirateria) attribuivano alla coscienza del giudice il potere di condannare i rei la cui colpevolezza non fosse pienamente dimostrata; il capitolo 29, invece, prevedeva poteri analoghi nel caso in cui il fatto apparisse alla coscienza del giudice essere un reato, nonostante la promissione non ne facesse menzione. Tale latitudine di strumenti repressivi trovava consistenti limiti nella prassi giurisprudenziale: i reati non previsti venivano valutati alla stregua della coscienza sociale e del danno che avevano arrecato alle parti offese e puniti secondo un procedimento analogico che si rifaceva a quelli previsti, per lo più irrogando una pena estraordinaria di entità minore a quella della fattispecie di riferimento. Quanto alla mancanza di prove, operava un complesso sistema di "presunzioni" basate su indizi: una prima classificazione ne danno i prologhi degli Statuti tiepoleschi (1242) e questo procedimento logico-induttivo (necessario quando il giudizio non era manifesto, cioè quando la colpevolezza non emergeva con immediatezza dalle risultanze processuali) si perpetuerà venendo rielaborato dalla dottrina nelle epoche successive (gli indizi si raggrupperanno in remoti che autorizzano la cattura, gravi che consentono di proclamare, costituire o torturare il reo e gravissimi che aprono la strada alla condanna).
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La massima punizione rimase in vigore durante tutta la storia della Serenissima, ma seguì concezioni diverse nelle varie epoche: 1. - nel Medioevo essa viene a collocarsi al vertice di una scala formata dalle pene corporali, non apparendo ad essa eterogenea, ma come il massimo grado d'intensità di queste; 2. - nel Rinascimento essa assume un significato più marcato, divenendo un sistema di eliminazione dei soggetti più pericolosi o comunque inaccettabili per la società; 3. - nel Settecento tale istituto entra in crisi, dovendo esso trovare giustificazione all'interno di un sistema codificato di diritti e di doveri. Un opuscoletto di metà Ottocento (compilato sulla base dei "Registri de Giustiziati" conservati presso la Biblioteca Marciana) presenta i seguenti dati numerici sulle condanne eseguite: per il Trecento 463, per il Quattrocento 79, per il Cinquecento 203, per il Seicento 431, per il Settecento 103; si tratta di cifre assai contenute rispetto ai ritmi assunti dalle esecuzioni in tutta Europa. I sistemi di soppressione furono svariati, ma i tre più largamente praticati in tutte le epoche furono l'impiccagione, la decapitazione con la spada, lo strangolamento in carcere. Altre tecniche cruente non sopravvissero al volgere del Rinascimento: si tratta del rogo (ultima esecuzione nel 1480), del mazzolamento, del deperimento per inedia (mediante la famigerata cheba, abbandonata a far tempo dal 1542), l'impiantamento a testa in giù (un solo caso riscontrato nel 1405); la fucilazione con moschetto (un grosso archibugio) si riscontra nel Seicento per giustiziare gli "sciacalli" che si impadronivano di beni infetti durante le pestilenze. Un discorso specifico riguarda l'esecuzione rituale, o pena capitale alterata: si trattava dell'inflizione di feroci tormenti anteriori alla morte, quali il tanagliamento delle carni con ferro rovente, l'amputazione della mano assassina, il trascinamento a coda di cavallo; ad essa si ricorreva per punire l'omicidio premeditato talvolta aggravato da circostanze speciali quali il parricidio, la strage, il latrocinio improbissimo soprammodo (cioè la rapina in concorso con l'omicidio), l'incendio di navi, l'attentato alla sicurezza pubblica con pericolose cospirazioni. Un'analisi sul grado di severità usato verso le diverse componenti sociali evidenzia un trattamento più duro nei riguardi dei malfamati (soggetti notoriamente dediti al crimine), degli stranieri immigrati, dei membri di bande armate. Nessun riguardo nel senso di aver salva la vita appare in prima analisi assicurato ai nobili, che fino al Settecento affollano i registri dei condannati a morte: piuttosto si cerca di salvaguardare il loro status, ossia il buon nome delle loro famiglie, evitando di spingere le umiliazioni ed i patimenti connessi all'esecuzione oltre un certo limite, magari infliggendo loro la decapitazione con spada anzichè l'impiccagione (ma non per tutti i reati), oppure risparmiandogli lo squartamento e l'inflizione dei tormenti anteriori (anche qui con clamorose eccezioni). La fascia sociale meno esposta ai rigori della giustizia appare essere quella femminile; nel Trecento risultano giustiziate alcune ladre, ma nei secoli posteriori il reato ascritto sarà di solito l'omicidio premeditato, spesso a sfondo passionale. Si ricorda che l'antica promissione del 1232 disponeva la sostituzione dell'impiccagione prevista per i maschi con altra meno cruenta a scelta del giudice. Particolare cura veniva riservata alla preparazione spirituale; le cronache riferiscono del ritiro del condannato in chiesola della durata di tre giorni. Notevole l'impegno profuso dalla Scola de i Picai (Scuola di S. Fantin) nel curare ogni esigenza del reo prima dell'esecuzione, dalla redazione del testamento al suo conforto materiale, fino al suo accompagnamento al patibolo; tale Confraternita celebrava, poi, il funerale e teneva ogni anno messe di suffragio.
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Il termine bando nel diritto medievale aveva un significato generico di provvedimento giudiziario destinato ad essere reso pubblico; nelle promissioni veneziane si riferiva alle condanne pecuniarie, ma con il Trecento si profilò come misura di espulsione da un determinato territorio, presidiata da terribili sanzioni in caso di trasgressione, tra cui faceva spicco l'impunità per chi catturasse, ferisse o uccidesse il reo bandito (con relativo compenso, la taglia, al momento della consegna del corpo). Un carattere di modernità derivava a questa pena dal fatto di essere disciplinata da una fitta rete di provvedimenti normativi (79, da fine Duecento a fine Seicento). Possiamo far cenno alle varie forme in cui veniva classificata. La relegazione assomigliava alla pena del confino, cioè l'obbligo di soggiorno in una precisa località. Era il tipo di bando meno pesante perché consentiva al reo di ricostruirsi una vita pur lontano dalla città d'origine, restando soggetto ai continui controlli del Podestà del luogo. Se ne faceva uso specie per punire i membri di classi agiate, ottenendosi anche il vantaggio di rivitalizzare luoghi depressi. Il bando ad inquirendum fu istituito a tutela dell'imputato: in quei casi in cui la colpevolezza non era dimostrata da gravi indizi, al reo bandito in absentia era concesso di presentarsi entro due anni dalla sua proclamazione ed ottenere la riapertura del processo presso la corte competente, senza poter essere ucciso o ferito impunemente nel frattempo. Il bando ad tempus non superava i vent'anni, mentre quello permanente era comminato a tempo indeterminato (in teoria a vita, salvo concessione della grazia). Il bando diffinitivo valeva per tutto il territorio dello Stato, ma poteva essere emesso solo dal Consiglio dei Dieci, oppure da Rettori e magistrati che operassero con il rito inquisitorio delegato dall'Eccelso Tribunale. Un importante principio, simile all'habeas corpus, regolava l'emissione del bando: non si poteva procedere con esso in mancanza di prove o di seri indizi.
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Di tutte le pene, la reclusione in carcere fu fatta oggetto delle maggiori attenzioni. Leggi, regolamenti, provvedimenti occasionali coprirono in ogni epoca i diversi aspetti della sua esecuzione: la disciplina carceraria, riduzioni di pena a seguito di grazia, facoltà di impugnare le sentenze, separazione delle diverse categorie di reclusi, evasione, perquisizioni dei visitatori, vigilanza, assegnamento della cella, costruzione di nuove prigioni, igiene, vitto, ricovero in infermeria, convalida d'arresto. Nei Capitolari delle magistrature competenti si riscontrano obblighi di procedere alla pronta espeditione di tutti i rei: dal dovere di riservare sedute settimanali ai rei incarcerati in attesa di giudizio, all'obbligo di stendere relazioni periodiche sullo stato dei detenuti. Assai incisivo fu il ruolo della "Fraterna del Santissimo Crocefisso di San Bartolomeo", che a partire dal Cinquecento si incaricò di reperire i fondi per la liberazione dei detenuti insolventi: procurava circa 10-15 liberazioni al mese ed altrettanti accomodamenti con i creditori. Si interessava inoltre al reperimento degli effetti di prima necessità e alla somministrazione del vitto. Si è calcolato che già nel Trecento la Quarantia Criminal comminava la carcerazione in oltre la metà delle condanne, per il resto prescrivendo il bando nel 10 % dei casi, la morte nel 5 %, pene corporali nel 2 %, altre pene nel 5 %. Il carattere di moderazione di tale politica penale emergeva anche dall'entità delle condanne: in larga parte si trattava di periodi da pochi giorni a quattro anni.
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L'imbarco forzato sulle galere fu introdotto dalla Parte Preg. 25 marzo 1545; essa prescriveva la generale commutazione delle pene "corporali" (mutilanti, detentive, bando) con questo nuovo tipo di punizione, purchè per un periodo non inferiore a 18 mesi. Si inaugurava così una normativa che incrementava i poteri equitativo-discrezionali del giudice poiché era rimesso al suo giudizio tradurre le punizioni previste dalle leggi precedenti in determinati periodi di imbarco forzato; frequenti richiami contenuti nelle leggi stabilivano la durata minima di imbarco al di sotto della quale non si poteva ricorrere a questa pena. Il Proemio della Parte Preg. 9 aprile 1620 lamenta che si dimostra inefficace l'irrogazione di altre pene più lievi ai rei di colpe punibili con condanne inferiori ai 18 mesi: il quantum della pena, quindi, veniva deciso secondo parametri oggettivi, non alterabili per supplire ad un crescente fabbisogno di rematori. Negli auspici del Capitano da Mar Cristoforo da Canal, soppiantando gli equipaggi di rematori volontari conl'introduzione degli sforzati si sarebbe ottenuta una maggiore efficienza a bordo, ma una serie di dure condizioni (spazi angusti, scarsa igiene, esposizione ad intemperie, sforzi eccessivi) elevarono paurosamente l'indice di mortalità: nelle navi da guerra i decessi conseguivano anche al combattimento. A sovvertire i periodi di pena (generalmente contenuti) irrogati con le sentenze erano le pendenze debitorie verso lo Stato: spesso i condannati non avevano modo di ripianarle, sicchè l'imbarco poteva proseguire ad libitum, dovendosi procedere alle trattenute sulla paga. Vi erano poi altre forme di lavori forzati. La ferma obbligatoria rappresentava una misura di prevenzione ante delictum, limitativa della libertà per chi seguisse uno stile di vita trasgressivo: gli oziosi e vagabondi erano avviati al servizio militare obbligatorio nell'esercito di terraferma per un periodo di almeno tre anni, a seguito di un processo sommario tenuto dal Rettore, di solito dietro denuncia dei familiari. Il corpo dei Travagliatori fu invece creato nell'ultimo ventennio del Settecento: i condannati per reati minori vennero avviati nei cantieri edilizi presso il forte di Zara e la cittadella di Corfù.
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Erano misure punitive di natura diversa da quelle corporali, ricavando il loro carattere afflittivo dall'umiliazione subita pubblicamente a detrimento dell'onore, piuttosto che dalla sofferenza fisica. Ne erano espressione la fustigazione, la berlina, l'erezione della colonna d'infamia, l'atterramento della casa, l'interdizione dai pubblici uffici, la radiazione dalla nobiltà.
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La tortura era concepita non come una pena, ma come un atto istruttorio che incontrava seri limiti sia nelle leggi, sia nella pratica; era vietato ricorrervi per far aderire il torturato alle tesi dell'accusa: questi doveva esporre i fatti a modo suo, poi il giudice doveva dirgli che la giustizia era già al corrente di tutto, infine gli andavano poste domande brevi e puntuali. Il decreto che autorizzava ad impartire la tortura era disposto dalla commissione istruttoria. Il giudice che avesse provocato dolosamente la morte del torturato era punito con la morte, ma andava comunque sottoposto a "sindacato" se aveva disposto l'esecuzione dei tormenti al di fuori dei seguenti limiti: 1. - il reo doveva apparire come l'autore del reato; 2. - il reato non doveva essere punibile con la sola pena pecuniaria; 3. - gli indizi a carico dovevano essere gravi (prova semiplena) e non in concorrenza con elementi che lo scagionassero, oppure che lo incriminassero manifestamente (nel qual caso si doveva senz'altro emettere la condanna, a meno che non occorresse accertare eventuali complicità). Garanzia essenziale per chi avesse fatto dichiarazioni sotto tortura era l'istituto della ratificatione: nelle 24 ore successive alla loro verbalizzazione sotto tortura, il reo doveva essere posto in isolamento, quindi fatto comparire in giudizio per confermare o smentire i costituti che venivano letti in aula. Se ritrattava, poteva essere torturato per altre tre volte, ma non confessando, nè emergendo altri elementi a carico, doveva essere prosciolto. La tortura era praticata secondo precise modalità: in un giorno si poteva eseguire 1 collegio di corda, oppure 1 prova del fuoco. Il primo si componeva di una cavalletta (il reo era appeso per le mani legate dietro la schiena, poi fatto cadere da altezza d'uomo), e di due squassi (si interrompeva la corsa della corda poco prima di toccare terra, producendo uno strattone), mentre una prova del fuoco consisteva nell'avvicinare i piedi dell'uomo ad una fonte di calore per un massimo di tre volte. Questi supplizi rappresentavano però il "terzo grado" della tortura, cioè il suo limite estremo: nella gran parte dei casi ci si fermava al 1° grado (si immetteva il soggetto nei locali appositi e lo si faceva spogliare, restando così a livello di minaccia) o al 2° grado (lo si lasciava appeso alla corda per un massimo di un'ora e mezza). Le categorie esentate dalla tortura erano formate da: 1. - minori sotto i 14 anni; 2. - gravide e puerpere; 3. - vecchi sopra i 60 anni; 4. - dottori, avvocati, cavalieri. Per gli altri imputati, era obbligatoria la visita medica preventiva che, se certificava l'inabilità a sopportare la violenza della corda, lasciava al giudice (in caso fosse necessario) la sola possibilità di disporre la prova del fuoco. Alcuni scrittori indicano nel 1721 l'anno in cui si cominciò ad abbandonare l'uso della tortura, ma tutte le fonti depongono comunque in favore della sua caduta in desuetudine negli ultimi decenni. Pur non essendo giunte a decretarne l'abolizione, le massime magistrature veneziane attestarono in vari documenti la volontà di procedervi nel corso della compilazione del "nuovo codice criminale".
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Reati contro il patrimonio |
La repressione di questo tipo di delitti segnò una linea di progressiva attenuazione già nel corso del Medioevo; si passa dalla crudele disciplina vigente al tempo dei Dogi Obelerio e Beato (IX secolo) che prevedeva taglio della mano al primo furto, acciecamento al secondo, impiccagione al terzo (che palesava una forte influenza dei maggiori ordinamenti dell'epoca, in primis di quello bizantino), alle previsioni più articolate delle promissioni dei malefici del 1100 e 1200, fino alle aggiunte e correzioni apportate tra 1200 e 1300. Il disposto combinato di questo assieme di norme profila un severo regime penale, impostato sulla corrispondenza tra entità del corpo del reato ed una certa pena corporale, cui si aggiungeva l'aggravante della recidiva. Peculiare è la diversificazione delle mutilazioni da irrogarsi alle donne delinquenti, introdotta dal Doge Giovanni Dandolo negli anni 80 del Duecento; si cerca di attenuare la crudeltà delle amputazioni: laddove all'uomo è cavato un occhio, alla donna si taglia il naso, oppure il labbro anzichè la mano e così via, sino al massimo grado costituito dall'impiccagione dell'uomo, cui corrispondeva una morte meno dolorosa per la donna, la cui scelta era rimessa al giudice. Con la Parte Sen. 25 marzo 1545 questo sistema appare superato: il giudice dovrà convertire le pene corporali previste dalla legge con l'imbarco forzato in galera e la durata della pena sarà quantificata con giudizio equitativo.
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I reati contro la persona (percosse, lesioni, omicidio, veneficio, ecc.) furono considerati nella loro specificità già all'interno delle promissioni medievali e divenirono poi oggetto di elaborazione dottrinaria nel Rinascimento. Dal capitolo 11 della Promissione del 1232 si evincono quattro princìpi:
- è punibile chiunque cagiona la marte di un uomo, a prescindere dal momento dell'evento-morte;
- operano le cause di giustificazione (specie la legittima difesa);
- la pena edittale è l'impiccagione;
- i compartecipi subiscono la stessa pena solo se hanno materialmente inferto colpi alla vittima.
Il dato peculiare del diritto criminale veneto è costituito dalla grande rilevanza che l'intenzionalità assume nel valutare la responsabilità penale; ce ne accorgiamo in particolar modo dall'impostazione seguita dalla dottrina nell'elaborare la struttura del reato di omicidio. Quattro categorie erano inquadrate tra i casi puri e altre quattro tra i casi attroci:
Omicidio per necessità (legittima difesa) |
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Omicidio di proposito |
Omicidio a caso |
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Omicidio proditorio |
Omicidio per colpa |
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Omicidio per assassinio |
Omicidio per dolo |
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Omicidio per insidie |
Per aversi casi atroci (gli unici ad essere puniti con la pena di morte) occorreva che l'azione omicida fosse stata preordinata a mente fredda, in base ad un ragionamento concepito in soluzione di continuità con il verificarsi del fatto che aveva determinato l'impulso ad uccidere. Non bastava, quindi, l'intenzione dell'agente di far seguire alla propria azione la morte della vittima, poichè l'omicidio doloso ma non premeditato restava nell'ambito della categoria meno grave dei casi puri; per un impeto momentaneo di rabbia (ad esempio durante un alterco o una rissa) il reo poteva aver inferto un colpo alla vittima con l'intenzione impulsiva di ucciderla, ma senza aver avuto il tempo di valutare le conseguenze delle proprie azioni. La classificazione delle forme di omicidio appare così persino meno severa di quella del diritto odierno, la quale raggruppa le ipotesi più gravi intorno all'elemento soggettivo del dolo e configura la premeditazione come semplice circostanza aggravante. Aggravavano, infine, questo reato il latrocinio, il parricidio, la strage, la lesa maestà.
Edoardo Rubini
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