Dialogo |
NOTE A DIFESA DELLA REPUBBLICA E DEL PATRIZIATO VENETO
In risposta a frequenti accuse mosse contro Venezia
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“La Repubblica
Veneta era retriva e oscurantista: non può definirsi avveduta la
classe di patrizi che mise all'indice il libro del Beccaria
perché contrario alla pena di morte”.
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Il sequestro del libro “Dei delitti e delle pene” fu un
provvedimento giudiziario cautelativo che sarebbe stato adottato da
qualunque altro Stato dell’epoca e che ancor oggi possiamo
definire giusto e opportuno. Singolare è la fortuna
dell’opera di Beccaria; Torcellan scrive che nel primo mese di
vendita in terra veneta, ne era stata venduta la bellezza di 520 copie,
ma il 27 agosto 1764 gli Inquisitori di Stato mettevano il libro al
bando. Non si trattava di vera censura ideologica, ma piuttosto
di una misura precauzionale in quanto s’ignorava chi fosse lo
scrittore anonimo che aveva messo sotto accusa il rito inquisitorio,
essenziale per la difesa dello Stato nell’ordinamento
veneto. Si temeva che dietro l’anonimato si celasse un
suddito veneto intenzionato a provocare disordini in relazione
all’arresto nel 1761 del N.H. Angelo Maria Querini per
attività politica sovversiva. L’edizione veneta
dell’opera potrà uscire solo nel 1781; tra i 509 nomi
degli associati che la promossero, compaiono quelli degli Inquisitori
che diciassette anni prima l’avevano fatta sequestrare. La
circostanza non è casuale: le filosofie illuministe trovavano
ascolto negli ambienti nobiliari e borghesi, anche se la classe
dirigente patrizia, ancora intrisa di Cristianesimo, dimostrava una
certa diffidenza verso utopie che, mentre promettevano una mitica
felicità per l’intero genere umano, producevano
l’effetto immediato di scardinare l’assetto morale della
Nazione. La sensibilità verso le tematiche umanitarie e
legalitarie era non di meno un tratto distintivo della cultura
giuridica veneta. Restava da capire che rinnovamento era
possibile senza dar adito a movimenti rivoluzionari. Nel 1789 i
tre Aggiunti sopraintendenti al sommario delle leggi consegnavano al
Senato una proposta di riordino del sistema penale, con cui la
commissione onorava l’incarico ricevuto un paio d’anni
prima; tra l’altro si prevedeva di riservare la pena capitale a
pochissimi casi.
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“Vanno
riconosciute le colpe dei reggitori veneziani per il crollo della
Serenissima. La storia insegna che se le cose avvengono, a determinarle
non è mai il caso, ma sono conseguenza di scelte
sbagliate. Negli ultimi giorni della Serenissima molti esponenti
della classe patrizia si erano adagiati su se stessi, avendo più
a cuore i propri interessi e beni che quelli dell'intero stato veneto,
che sciolsero in quattro e quattr’otto senza tanti
problemi”.
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E’ vero che se le cose avvengono, a determinarle non è mai
il caso, ma esse rappresentano le conseguenze di scelte sbagliate.
In questo caso, la scelta errata fu fatta da due potenze militari che
disponevano di espansione territoriale, numero di cittadini, risorse
economiche e apparato bellico abbondanti e molte volte superiori
rispetto a quelli della Veneta Serenissima Repubblica.
Com’è noto, con i preliminari segreti di Leoben (16-17
aprile 1797) e la successiva ratifica con il trattato di Campoformido
(17 ottobre 1797) Francia ed Austria smembrarono lo Stato Veneto e se
lo spartirono, determinandone la fine dopo 14 secoli di gloriosa
indipendenza, dopo che esso aveva intrattenuto buone relazioni con
entrambe le parti e con il resto del mondo conosciuto. Nel maggio
1797 Napoleone, mentre costringeva Venezia a cambiare la sua
Costituzione, facendo abdicare Doge e Maggior Consiglio in favore di
una municipalità provvisoria, in realtà aveva già
venduto sottobanco alla tanto odiata Austria queste terre, con gran
scorno degli ingenui progressisti che avevano creduto in lui. Dal
1796 entrambi gli eserciti sconfinavano in terra veneta, secondo una
prassi che consentiva questi movimenti quando rappresentavano un
passaggio obbligato nelle manovre militari. Venezia, consapevole
di non avere i mezzi per fronteggiare una guerra furiosa e
pericolosissima (che non la riguardava in nessun modo), aveva
dichiarato la sua neutralità, purché i contendenti
osservassero gli accordi assunti. Il 1° maggio, quando le
truppe francesi minacciavano ormai da vicino la laguna, Napoleone
dichiarò alla pacifica Repubblica una strana guerra in cui
si ordinava ai militari francesi non solo di calpestare la
sovranità di uno Stato legale, ma addirittura di cancellarne
l’identità, abbattendo l’emblema nazionale del Leone
Marciano. La direttiva politica della soppressione di uno Stato libero
e legale fu inopinatamente mantenuta ferma durante il Congresso delle
potenze vincitrici a Vienna nel 1815, che restaurò tutti gli
altri Stati anteriori ai due decenni di guerre napoleoniche (costate
all’Europa milioni di morti), ancor oggi considerate giuste
perché “liberarono” il vecchio Continente dal
Cristianesimo ed instaurarono i nuovi “ideali”
liberal-illuministi.
Imputare alla sola Venezia l’incapacità di respingere
l’invasione francese fa sorridere, dato che Napoleone travolse
tutti gli eserciti nemici, mise fine al Sacro Romano Impero che durava
da mille anni, proclamò se stesso Imperatore del globo,
devastò gli sterminati territori russi, umiliò persino il
sentimento nazionale germanico, al punto che Fichte si sentì in
obbligo di riscattare la dignità della sua Prussia scrivendo i
“Discorsi alla Nazione Tedesca”, innescando così
quello che il secolo successivo conobbe come il nazionalismo per
antonomasia.
Nessuna colpa di rilievo può essere addebitata al Patriziato
Veneziano: quasi nessuno scappò, i governanti restarono al loro
posto, con il cuore affranto si fecero signorilmente da parte e
badarono a (ri)consegnare il potere a quel popolo che, come emerge
dagli atti ufficiali, essi sempre considerarono titolare della
Sovranità Nazionale (che il Maggior Consiglio custodiva
solamente). Caso unico nella storia, quella classe dirigente che visse
in funzione dello Stato, in pochi decenni si spense, quasi a suggellare
un’identificazione totale con la Nazione a cui la storia sembrava
voler negare il diritto a sopravvivere.
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“Anche i Veneziani avrebbero rubato molte opere d'arte”.
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E’ un luogo comune trito e stucchevole, i Veneziani non hanno
rubato nulla. Compravano o scambiavano quello che a loro serviva o
piaceva (ed avevano la capacità e gli strumenti per
farlo). Di rado hanno portato con sé ( e adornato la
Città) con qualche significativo trofeo di guerra, come le
statue dei leoni del Pireo (oggi posti davanti l’Arsenale),
oppure come i Cavalli della Basilica o i Tetrarchi all’angolo
della stessa, salvati dalle distruzioni avvenute a Bisanzio durante la
IV Crociata. Nell’assalto finale in città, è
testimoniato come i comandanti veneti si fossero spesi per moderare le
inevitabili violenze e ruberie che si consumavano in questi casi: i
feudatari europei non ebbero altrettanti scrupoli. La più
importante documentazione - prodotta per osservazione diretta -
è quella prodotta dal Maggiordomo francese Villarduine e depone
in favore dei Veneziani. Sul ricordo di quest’episodio si
sono gettate tonnellate di melma da parte della scuola italiana.
Si è voluto dimenticare che la diversione della Crociata dalla
Palestina a Costantinopoli fu richiesta in modo insistente
dall’erede al Trono imperiale Alessio, che voleva riportare al
potere il padre spodestato dallo zio. La spedizione militare fu
concordata tra lui ed i feudatari francesi e solo successivamente
Venezia vi aderì. Negli ultimi decenni Bisanzio si era inoltre
indebitata alla grande con la nostra Repubblica, avendo quel governo
per ben due volte assaltato, saccheggiato ed imperversato nel Quartiere
veneto della Città levantina, uccidendo ed imprigionando, senza
serio motivo e in violazione delle norme internazionali.
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“I patrizi hanno
costruito grandi patrimoni immobiliari con i privilegi della loro casta
essendo esenti dall'estimo in terraferma”.
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Il Patriziato Veneziano rappresenta tuttora la più prestigiosa
classe dirigente che abbia operato nella storia umana, così come
la Veneta Serenissima Repubblica fu il più perfetto modello di
Stato democratico, perché davvero rappresentativo del
popolo. Il potere, allora, si atteggiava come vera
Autorità, in quanto riconoscibile e responsabile davanti al
popolo, fungendo d’esempio per tutti.
I privilegi nel mondo antico erano diffusissimi e tenevano in
piedi l’intera società. Erano giusti e necessari
perché meritati, a differenza di quelle caste occulte che oggi
dominano le masse, vivendo di privilegi ingiustificati camuffati da
diritti (tecnocrazia). Il Patrizio Veneziano era animato da
sincera Fede in Gesù Cristo, dandovi costante e concreta
testimonianza, e l’insegnamento Evangelico era il sicuro
riferimento morale delle sue scelte, persino in campo giuridico e
giudiziario. Nel caso specifico, la politica fiscale veneziana
consentì tra Sei e Settecento uno sviluppo eccezionale della
produzione agricola e manifatturiera: la Villa veneta diventerà
un mito in tutta Europa, perché coniugava la forte valenza
economica come azienda ed epicentro organizzativo del territorio, con
lo splendore incantevole delle sue forme. Non erano residenze
esclusive, bensì “la casa” dell’intero
contado: tutto intorno non si vedeva un solo recinto.
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“I Veneziani
hanno mantenuto lo status quo di molte città dopo la loro
adesione senza fare una vera opera di integrazione”.
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Lo status quo delle città era, in una parola, la loro
Libertà. Venezia può essere giustamente accusata di
aver pervicacemente mantenuto e garantito il Bene delle città
sorelle minori, rifiutandosi di aderire al modello delle Monarchie
assolute che in Età moderna avevano proceduto ad un fortissimo
accentramento del potere in capo alle strutture unificate dello Stato.
Le riforme di Maria Teresa, p.e., realizzarono il servizio militare
obbligatorio, un’intensa burocratizzazione e la scuola di Stato,
tutte cose che Venezia giudicava autoritarie. Giova ricordare come
tutte le città si aggregarono alla Repubblica attraverso
dedizioni volontarie, a seguito di conflitti nei quali mai Venezia
aveva aggredito nessuno, ma solo difeso la sua legittima sfera di
interessi a livello internazionale (il più delle volte contro
aggressioni altrui). Con la dedizione, Venezia in sostanza
recepiva gli Statuti locali appena correggendoli nei dettagli e sempre
li rispettò, ricambiata dalla riconoscenza generale dei sudditi
e delle Comunità aggregate (Dominii). Qualche storico
indica come elemento di debolezza l’antichissima struttura
federale dello Stato Veneto: così si può ragionare se si
considera punto di forza la costrizione e punto di debolezza il
consenso. La saggezza, però, insegna il contrario. La
Repubblica in realtà governava con l’affetto e lo scrupolo
di una Madre. L’integrazione nelle Terre Venete era
eccezionale: Veneti, Friulani, Istriani, Dalmati, Sloveni, Croati,
Bocchesi, Sudditi della Dominante, si sentivano rispettati nella loro
identità in questo quadro composito, nondimeno erano animati da
un Amor di Patria incredibile, che immancabilmente dimostravano in
guerra, nelle carestie, nei momenti difficili. Tuttora, Venezia
è rimpianta da Bergamo fino alle Isole Ionie. Sul piano
economico, fu incredibile la capacità del Veneto Patriziato di
fare di tutte le membra dello Stato un sistema integrato. Ognuno aveva
una specializzazione: a Padova l’Università, a Brescia
l’industria di armi, alla Pedemontana l’industria tessile,
ecc., ecc.
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“Venezia aveva truppe mercenarie al soldo e non una milizia nazionale”.
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L’esercito era formato da truppe professionali, specie durante la
guerra bisognava ricorrere all’arruolamento anche di
stranieri. Ma vi era anche un robusto apporto di truppa locale,
sia per armare la flotta, sia per la difesa locale. Famose le
Cèrnide, truppe territoriali di spirito volontaristico. Per
attuare una prima difesa dalle aggressioni esterne si erano costituiti
questi corpi, formati da contadini che si esercitavano la domenica,
addestrati da ufficiali di carriera. In pratica, ogni Comunità
aveva il suo piccolo esercito e disponeva di proprie armi, come pure
nelle varie città c’erano le Guardie Civiche (ecco, questa
è la democrazia impossibile che oggi ci sogniamo…. forse
troppo elevata per essere capita). Non si dimentichino gli
Schiavoni: benché fossero Dalmati (soprattutto Bocchesi) di
lingua slava, erano in sostanza la truppa scelta dell’Armata
Veneta.
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“Il potere politico era riservato ai cittadini veneziani”.
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No, era proprio riservato ai Nobili, ma solo ai migliori, perché
il sistema politico era imperniato sulla responsabilità (chi
sbagliava pagava caro). C’era un complesso e lungo cursus
honorum che continuamente testava e verificava sul campo la
capacità politica e gestionale dei singoli. La Veneta
Serenissima Repubblica fu uno Stato perfetto nella misura in cui
possono esserlo le cose umane. In sintesi, il Buon Governo è il
prodotto di una classe dirigente selezionata e sottoposta a continui ed
insistenti controlli: solo questo può permettere ad una
compagine statuale di durare 14 secoli, record che difficilmente
potrà essere eguagliato.
Pubblicazioni specifiche, come “Giustizia Veneta” (di
Edoardo Rubini) possono spiegare i meccanismi specifici di questo
funzionamento, come i principi di collegialità,
temporaneità e doverosità della carica pubblica. Non si
trascurino altri due aspetti essenziali: tutto l’apparato era
formato da borghesi non nobili (c.d. cittadini), e svolgeva un delicato
ed importante ruolo di controllo. Il governo locale era comunque
retto integralmente da persone del posto, con strutture sia collegiali
e rappresentative, sia burocratiche, di antica tradizione, quindi non
c’era nessuna invadenza veneziana, ma solo una buona guida.
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“La serrata del maggior consiglio 1297 rese immobile e impossibile il cambio della classe dominante”.
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La serrata del maggior consiglio 1297 fu un capolavoro di ingegneria
istituzionale (favorita dall’azione di un Doge straordinario
quale fu Pierazzo Gradenigo), che suggellava un processo di
trasformazione del sistema politico da democrazia diretta a democrazia
organica, che abbracciò almeno due secoli (cominciò nel
1100). Il suo maggior merito fu appunto quello di garantire al meglio
il ricambio costante della classe dirigente: formando in continuazione
i suoi nuovi quadri, il governo disponeva di sempre nuovi gestori
preparatissimi e nel contempo teneva ferme le direttive politiche nel
corso dei secoli. Il risultato eccezionale fu proprio la
stabilità e l’affidabilità del sistema: al bando
qualsivoglia personalismo e fazione, ogni cosa subordinata al bene
comune, un’identità forte e riconoscibile a livello
internazionale, un senso del dovere radicatissimo.
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“Dopo Agnadello
e Lepanto, Venezia ha fatto di tutto per non essere coinvolta in altre
guerre usando una pura politica da sensale spostando gli equilibri
delle alleanze europee rischiosamente”.
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Venezia a partire dal Medioevo era il baricentro e il pendolo di tutta
la politica internazionale, grazie ad un’eccezionale
capacità di mediazione tra le massime potenze: Impero franco,
Impero bizantino, Stato Pontificio, Imperi dell’Estremo Oriente,
Stati Occidentali, potenze atlantiche, ecc.
Per fare un esempio, la pace storica tra il Papa e l’Imperatore
Federico Barbarossa fu caldeggiata e firmata a Venezia. Il
prestigio internazionale di cui godeva l’intero Corpo Diplomatico
Veneto era immenso, in Età comunale le Città venete
ancora indipendenti chiamavano a governarle Podestà veneziani,
nel ‘600 Venezia fu l’unica che si oppose vittoriosa
persino alle interferenze improprie del Vaticano nella politica
interna, anche grazie a quell’illustre intellettuale veneto del
calibro di Paolo Sarpi. In ogni caso, anche ai tempi di maggior
gloria, la guerra fu considerata l’extrema ratio.
L’abilità degli ambasciatori veneziani era leggendaria,
proverbiale la loro capacità di raccogliere notizie e
trasmettere suggerimenti al Governo Patrio (ancor oggi fungono da
esempio a chi voglia intraprendere la carriera diplomatica), i loro
resoconti sono documenti frequentatissimi dagli storici.
Ma soprattutto in politica la Repubblica applicava con costanza le 4
virtù cardinali: Prudenza, Temperanza, Giustizia, Fortezza,
sicché essa divenne elemento insostituibile per la
stabilità d’Europa e del Mediterraneo. Tutti questi meriti
erano riconosciuti al Veneto Governo in primis dai suoi nemici, la
Sublime Porta: il Sultano ai suoi ministri imponeva di parlare con gli
stranieri solo due lingue: o il Turco, o il Veneziano.
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“Non si
può certamente negare che i patrizi si siano venduti prima
all'Austria e poi ai Savoia pur di vedere riconfermati i loro titoli e
ovviamente sempre dietro compenso”.
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La fedeltà e la dedizione totale del patriziato allo Stato
Veneto non fu messa mai in discussione neppure dai numerosi mediocri
storici che scribacchiano su tante pubblicazioni dozzinali o peggio
siedono in cattedra. Si può ricordare come la Nobiltà
veneziana continuò a servire il popolo anche quando fu del tutto
spogliata del potere, come durante il 1848, quando a proprio rischio e
pericolo e pur disapprovando la resistenza ad oltranza contro
l’Austria, sostenne in tutti i modi il governo di Daniele
Manin. Un fulgido esempio di integrità morale di cui oggi
si sente la dolorosa mancanza.
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“Il risultato
confuso di quello che siamo è la diretta conseguenza delle
traversie politiche ambigue di Venezia. Nessuno nega la stupenda e
millenaria storia di Venezia però i veneziani non erano stinchi
di santi”.
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Il risultato confuso di quello che siamo è il prodotto del
nostro presumere di sapere. Non si tratta di essere stinchi di
santi (oddio! a volte c’erano anche quelli…), l’uomo
è di per sé un essere imperfetto. Il problema
è che il sistema politico di allora produceva un’ottima
classe dirigente, quello attuale solo un penoso degrado. Venezia sempre
usò l’intelligenza e la correttezza nei comportamenti
prima che la forza. L’ambiguità diveniva tattica
necessaria quando non era possibile dare soluzioni immediata a tanti
problemi (la cui soluzione non dipendeva solo da lei). Non si pretende
qui di privare nessuno dei propri pregiudizi, ma solo ricordare che la
conoscenza della storia richiede tanto tempo e fatica, nonché
discernimento rispetto alle tante interessate sciocchezze che
circolano. Per aprire bocca con cognizione di causa è
necessario studiare sul testo ancor oggi più veritiero e
completo costituito dai 10 volumi della Storia documentata di Venezia
di Samuele Romanin (ed. Filippi, Venezia 1975, 3a ed.). Vi si
troverà ampio riscontro su quanto sopra affermato.
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AGOSTO
2009
A cura di
Edoardo Rubini
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